Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, arriva in sala dal 30 ottobre con Vision Distribution
Cinque secondi, il nuovo film di Paolo Virzì, segna un ritorno tanto atteso quanto intimo alla Toscana, terra delle origini e laboratorio emotivo privilegiato per il regista. È un’opera dolente e crepuscolare, in cui Virzì si misura con uno dei suoi lavori più cupi, ma anche uno dei più sinceri.
Al centro del racconto, un uomo spezzato: Adriano Sereni, interpretato da un intenso Valerio Mastandrea, è un avvocato di successo che, dopo un evento traumatico — un momento di distrazione durato appena cinque secondi — si ritira dal mondo, abbandonando la carriera, la famiglia e ogni legame. Si rifugia in una villa decadente tra le colline toscane, dove conduce una vita spenta, ossessionato dalla colpa e chiuso in una routine silenziosa fatta di sigari, rituali e messaggi mai ricambiati al figlio.
La solitudine però viene interrotta dall’arrivo di un gruppo di giovani idealisti che occupano la tenuta per ridare vita alla vigna abbandonata. Tra loro spicca Matilde (Galatea Bellugi), incinta, fragile e combattiva, che innesca un rapporto aspro ma necessario con Adriano. La loro relazione, fatta di conflitto e attrazione emotiva, diventa il cuore del film, un confronto che costringe l’uomo a misurarsi con ciò che ha rifiutato: la responsabilità, l’amore, la possibilità di ricominciare.
Parallelamente, un processo a Roma riporta alla luce il dramma che ha segnato la sua vita: un errore imperdonabile che lo ha separato dal figlio e lo ha spinto all’autoesilio. È lì, in tribunale, che il film tocca il suo vertice emotivo, quando la difesa cede il passo alla verità, e la giustizia interiore prevale su quella legale.
La pellicola si fonda su una domanda sottile e universale: quando abbiamo smesso di guardare davvero i nostri figli? Non c’è una risposta netta, ma un costante affondo nel dolore e nella colpa, soprattutto quella paterna, che da individuale si fa anche sociale. In tal senso, Cinque secondi prosegue il percorso avviato in Il capitale umano e lo intreccia con la tenerezza ferita di La pazza gioia, spostando però il baricentro sul rapporto padre-figli, affrontato con uno sguardo asciutto e privo di retorica.
La scrittura, condivisa con Francesco Bruni e Carlo Virzì, cerca un equilibrio tra introspezione e racconto corale, alternando momenti di solitudine sospesa a scene di convivenza forzata e confronto generazionale: qui entra in scena la giovane Matilde, interpretata con vigore da Galatea Bellugi, personaggio chiave che incarna la forza ruvida e il bisogno disperato di radici di una nuova generazione.
La comunità di ragazzi che occupa la villa vuole rappresentare un’alternativa, un futuro diverso, ma è proprio questa parte del film a risultare meno convincente, quasi stonata rispetto alla densità emotiva del protagonista. Non sempre il racconto corale riesce a integrarsi armoniosamente con la parabola intima di Adriano, e alcune dinamiche sembrano inserite più per esigenza simbolica che per necessità narrativa.
Tuttavia, nonostante qualche sbilanciamento e una certa prevedibilità in alcune svolte, Virzì riesce ancora una volta a toccare corde profonde, specie nei silenzi, nei dettagli quotidiani, nei gesti minimi che diventano confessioni. La regia si fa trattenuta, quasi pudica, lasciando spazio all’interpretazione misurata e malinconica di Mastandrea, affiancato da una Valeria Bruni Tedeschi che lavora per sottrazione, e che, insieme a lui, regala momenti di autentica intensità.
A restare impressi sono i passaggi in cui il dolore si mostra senza bisogno di spiegarsi, in cui l’irreparabile viene accettato non con rassegnazione ma con l’onestà di chi non si sottrae più allo sguardo dell’altro. Il finale, attraversato dalle note struggenti di Place to Be di Nick Drake, suggella questa volontà di riconoscimento: non una redenzione, ma una tregua.
Il film non offre soluzioni, ma suggerisce la possibilità di una ripartenza, anche solo attraverso l’ascolto e la presenza. E se la narrazione a tratti traballa, ciò che resta è la sincerità dell’intento e una vitalità irregolare, ma mai artefatta, che conferma Virzì come uno dei pochi registi italiani capaci di raccontare il presente senza paura di scendere a patti con la fragilità.
Ilaria Berlingeri