“Rivoluzione e Tradizione” a Palazzo Cipolla: un viaggio nell’universo lucido e visionario dell’artista catalano, oltre i baffi e gli orologi molli
Dal 17 ottobre 2025 al 1° febbraio 2026, Palazzo Cipolla ospita la mostra Dalí. Rivoluzione e Tradizione, promossa dalla Fondazione Roma in collaborazione con la Fundació Gala-Salvador Dalí. Un progetto curatoriale a tre voci – Montse Aguer, Carme Ruiz González e Lucia Moni – che restituisce al pubblico un ritratto complesso e sorprendente di Salvador Dalí, artista tra i più iconici e inafferrabili del Novecento.
Il percorso espositivo, composto da oltre sessanta opere – tra dipinti, disegni, fotografie e video – invita a superare l’immagine del personaggio eccentrico per riscoprire l’intellettuale rigoroso, il pittore instancabile, lo studioso del dettaglio e della forma. Dalí, infatti, non fu solo un provocatore geniale, ma un artigiano della visione, capace di coniugare la furia del Surrealismo con la precisione della tradizione pittorica.
Tra Parigi e Figueres, tra mito e metodo
La mostra ricostruisce l’evoluzione del suo linguaggio: dagli esordi a Figueres, in Catalogna, ai primi successi parigini, dal confronto ravvicinato con Picasso alla messa a punto del celebre metodo paranoico-critico, una tecnica immaginativa che trasforma la percezione in strumento creativo. Nella sezione dedicata alle avanguardie, emergono le tensioni tra due giganti della pittura del Novecento: Dalí e Picasso si sfiorano, si scontrano e si riflettono, due anime mediterranee che condividono il genio e la rivalità.
Opere come Tavolo di fronte al mare e Omaggio a Erik Satie testimoniano una ricerca poetica che unisce il sogno alla struttura, l’inconscio alla tecnica. È qui che l’artista rivela la sua ossessione per il controllo, per l’equilibrio tra impulso e forma.
Il ritorno alla pittura: tra misticismo e scienza
Negli anni ’40 e ’50, quando il mondo dell’arte si orienta verso l’informale, Dalí compie una scelta controcorrente: riscopre la tradizione. Non per nostalgia, ma per rigore. Studia Raffaello, Vermeer e Velázquez con lo sguardo dello scienziato e ne rielabora le lezioni attraverso la lente della fisica nucleare. Nasce così la sua “mistica nucleare”, una visione pittorica in cui la materia atomica diventa nuovo simbolo del sacro. In mostra, questo percorso culmina con Incendio del Borgo (1979), esperimento stereoscopico che trasforma la prospettiva rinascimentale in un abisso tridimensionale: lo sguardo dello spettatore è risucchiato, la tela diventa vortice.
Un allestimento pensato come un’esperienza
L’allestimento non si limita a esporre le opere: le mette in scena, le fa vivere nello spazio. I corridoi irregolari e i labirinti sotterranei di Palazzo Cipolla, spesso percepiti come difficili da gestire, qui si trasformano in parte integrante della narrazione. La disorientante sequenza di sale amplifica il senso di vertigine, rendendo il percorso un’estensione del pensiero daliniano: si attraversa la mostra come si attraversa un sogno lucido, dove ogni passo è una scoperta e ogni smarrimento è calcolato.
Le fotografie di Francesc Català Roca e Juan Gyenes, sparse lungo il percorso, restituiscono l’immagine di un Dalí più intimo e concentrato: non l’istrione in posa, ma l’uomo assorto nel proprio lavoro, metodico e preciso, capace di trasformare la follia in progetto artistico.
Un classico del nostro tempo
“Io non dipingo quadri, costruisco universi”, scriveva Dalí nel 1942. E proprio questa è la sensazione che accompagna il visitatore alla fine del percorso: non si è vista una mostra, ma si è abitato un universo. Un mondo dove rivoluzione e tradizione, lungi dall’essere opposti inconciliabili, convivono in un equilibrio instabile e fecondo. È in questa tensione, mai pacificata, che Dalí ha costruito il suo linguaggio.
A Roma, il pittore catalano ritorna non come icona del Surrealismo, ma come classico contemporaneo, capace di connettere memoria e futuro, ordine e visione. E mentre si lascia alle spalle la penombra di Palazzo Cipolla, si comprende che il vero centro della mostra non è il genio esibito, ma l’inquietudine fertile che il suo lavoro continua a generare.
Roberto Puntato