Un adattamento ambizioso ma disorientato, dove il mito del vampiro si perde tra melodramma, spiritualità e barocchismo digitale. In anteprima alla Festa del cinema di Roma e in sala dal 29 ottobre con Lucky Red
Con Dracula – L’amore perduto, Luc Besson tenta una delle imprese più rischiose della sua carriera: riportare in vita l’icona per eccellenza del gotico romantico, filtrandola attraverso la sua visione spettacolare, pop e iper-stilizzata. Il risultato è un film che affascina e irrita in egual misura, in bilico costante tra il sublime e il pacchiano, tra il misticismo e il videoclip.
Besson riscrive il mito di Bram Stoker ripartendo idealmente dal film di Francis Ford Coppola del 1992, di cui conserva le linee melodrammatiche — l’amore immortale, la dannazione, la fede tradita — ma le rielabora con libertà anarchica.
La vicenda si sposta nella Parigi fin de siècle, dove il conte Vlad (un febbrile Caleb Landry Jones) cerca la reincarnazione della sua amata Elisabeta (Zoë Bleu), ora nei panni della giovane Mina. A fare da cornice: fiere, profumi stregati, conventi e cattedrali che sembrano usciti da un incubo disneyano più che da un romanzo gotico.
L’idea di fondo è interessante: Besson trasforma Dracula in una parabola sull’amore assoluto e sulla redenzione, un melodramma mistico in cui il sangue è insieme desiderio e fede. Ma se l’intenzione è chiara, l’esecuzione lo è molto meno.
C’è da riconoscere a Besson un coraggio raro nel panorama attuale: quello di abbracciare l’eccesso. Dracula – L’amore perduto è un film che non teme il ridicolo, che accoglie tutto — dall’horror romantico alla nunsploitation, dalle danze bollywoodiane ai gargoyle digitali — con un entusiasmo quasi infantile.
La sua regia non nasconde nulla: gioca apertamente con la superficie, con il colore, con la teatralità. In alcuni momenti, questo caos diventa poesia visiva. Il lavoro su luce e movimento, la cura dei costumi, la costruzione di certe sequenze oniriche (come la fuga a cavallo nella neve o il ballo tra vivi e morti) dimostrano che Besson sa ancora creare immagini ipnotiche, capaci di evocare la meraviglia.
Anche Caleb Landry Jones è un punto di forza: il suo Dracula è un essere fragile e inquieto, un amante maledetto più che un mostro, la cui intensità fisica e nervosa tiene in vita un racconto che spesso rischia l’anemia.
Tuttavia, il film crolla sotto il peso delle proprie ambizioni. Laddove Coppola costruiva un melodramma viscerale, Besson confeziona un grand guignol digitale dove ogni emozione è sovraesposta, lucidata, privata di ombra.
La fotografia di Colin Wandersman, eccessivamente uniforme e luminosa, cancella il chiaroscuro del gotico, trasformando il dramma in un videoclip patinato. La colonna sonora di Danny Elfman, ridondante e spiegata, amplifica il tono enfatico invece di scavare nelle pieghe emotive.
Sul piano narrativo, la pellicola alterna momenti di ispirazione a improvvisi sbandamenti: il tono oscilla dal dramma religioso alla commedia involontaria, dal mito alla soap, senza trovare mai un equilibrio stabile. La componente spirituale, tanto ostentata, risulta superficiale; il conflitto tra salvezza e dannazione si riduce a un gioco di simboli decorativi, privi di reale tensione metafisica.
Il cast secondario, pur ricco di nomi interessanti, resta sacrificato: Christoph Waltz ripete tic e inflessioni già note, Matilda De Angelis brilla in brevi apparizioni ma viene presto relegata a figura accessoria, mentre la stessa Zoë Bleu fatica a reggere il doppio ruolo di musa e reincarnazione.
Dracula – L’amore perduto è, in fondo, un film sul cinema stesso di Besson: seduttivo ma dispersivo, generoso ma narcisista, sempre in bilico tra incanto e artificio. Vuole essere un rito d’amore per il mito, ma finisce per somigliare a un parco tematico gotico, dove ogni simbolo è una decorazione e ogni emozione è addomesticata.
Non manca l’inventiva, manca la carne. Non manca la visione, ma il cuore che la giustifichi. Come il suo protagonista, anche questo Dracula anela alla resurrezione, ma resta sospeso tra la vita e la morte, tra il cinema e la sua parodia.
Luc Besson firma un film visivamente sontuoso e concettualmente ambizioso, ma privo di morsi. È un Dracula che ama la propria immagine più della propria leggenda, un atto di devozione che si trasforma in spettacolo artificiale. Un’opera che si guarda allo specchio e si innamora del riflesso, dimenticando che i vampiri, per definizione, non ne hanno uno.
Paola Canali