Vincitore del Premio “Vittorio Gassman” per Anson Boon come Miglior Attore della Festa del Cinema di Roma, arriverà nelle sale italiane nel 2026 con Minerva Pictures e Filmclub Distribuzione
Con Good Boy, Jan Komasa firma un’opera disturbante, provocatoria e di grande fascino formale, che fin dall’inizio impone allo spettatore un percorso visivo e morale volutamente scomodo.
La storia di Tommy, diciannovenne autodistruttivo e violento interpretato da un magnetico Anson Boon, parte come un’odissea urbana di eccessi e degrado giovanile, per virare bruscamente verso un thriller psicologico dai contorni distopici e fortemente simbolici.
Komasa è abilissimo nel rovesciare l’asse emotivo del film: ci fa detestare il protagonista per poi spiazzarci, obbligandoci a mettere in discussione i metodi brutali di redenzione a cui viene sottoposto. Il sequestro da parte della famiglia composta da Chris e Kathryn, interpretati con rigore inquietante da Stephen Graham e Andrea Riseborough, segna l’inizio di un processo di rieducazione forzata che richiama Arancia meccanica senza copiarla, trovando una propria voce nel paradosso morale che mette in scena.
Komasa orchestra un’atmosfera carica di tensione e alienazione, aiutato da una regia che sfrutta gli spazi chiusi e i contrasti tra ordine e brutalità per evocare claustrofobia e controllo, e da un impianto sonoro minimale ma efficace.
L’uso di tecnologie di sorveglianza, codici, videosorveglianza e video social come strumenti di “cura” aggiunge uno strato metanarrativo potente, che riflette su quanto la società contemporanea sia già una prigione invisibile regolata dal giudizio e dalla visibilità. È proprio in questi dettagli che il film trova i suoi momenti più forti: il modo in cui l’educazione impartita a Tommy sembra produrre risultati, mentre in realtà innesca nuove inquietudini, nuovi interrogativi.
Tuttavia, Good Boy non è esente da imperfezioni. La linea narrativa legata al personaggio di Rina, la governante immigrata che diventa inconsapevole spettatrice della prigionia di Tommy, rimane abbozzata e poco coerente con il resto della storia, lasciando la sensazione di un’occasione mancata. Anche la parte finale, affrettata e meno solida rispetto all’avvio, rischia di diluire l’impatto complessivo dell’opera.
Ma è nel suo cuore ambiguo e nell’estetica ipercontrollata che il film trova la propria cifra: un racconto disturbante in cui l’orrore non è tanto ciò che accade, ma il pensiero che tutto ciò possa avere una logica, persino una sua attrattiva. L’interrogativo finale – se non sia preferibile una prigione ben arredata alla libertà nel caos – è lasciato volutamente aperto, proprio come lo sguardo di Tommy, che dopo aver indossato gli occhiali (simbolo piuttosto evidente, ma comunque efficace) sembra finalmente “vedere”, anche se non è chiaro cosa. Komasa riesce così, pur con qualche passaggio meno centrato, a confezionare un’opera lucida e provocante, che si muove sul crinale della critica sociale e della distopia morale, e che invita lo spettatore a interrogarsi, più che a prendere posizione.
Federica Rizzo