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Good Boy, sorprendente esordio nel lungometraggio del giovane cineasta statunitense Ben Leonberg, è un horror domestico atipico che riesce, con mezzi modesti e idee chiarissime, a imporsi come uno dei titoli più originali dell’anno. Il film si sviluppa attorno a un’idea semplice ma radicale: raccontare un’infestazione non dal punto di vista dell’essere umano, ma di un cane, Indy, un Nova Scotia Duck Tolling Retriever che diventa il vero protagonista della vicenda, nonché tramite sensibile tra il mondo dei vivi e le presenze che abitano l’oscura casa del nonno di Todd, giovane affetto da una malattia polmonare che decide di isolarsi in campagna per trovare pace.
Leonberg abbassa l’inquadratura all’altezza del pavimento e costruisce l’intera grammatica visiva del film sulle percezioni dell’animale: l’udito fine, l’olfatto sviluppato, la capacità di cogliere dettagli invisibili allo sguardo umano diventano gli strumenti principali attraverso cui la tensione prende forma. Il risultato non è un horror convenzionale, ma un’esperienza sensoriale immersiva, capace di trasformare l’ambiente domestico in una mappa del sospetto e dell’ambiguità. La casa – piena di spifferi, oggetti dimenticati e memorie sedimentate – si fa spazio quasi sacro, attraversato da presenze che si manifestano in modo opaco, mai del tutto spiegato, come nella migliore tradizione del cinema del mistero.
La messa in scena rifugge i facili colpi di scena o lo spavento da manuale: predilige invece una ripetizione calibrata e una tensione sottopelle che cresce lentamente, quasi impercettibilmente, facendo leva sulla relazione tra il cane e il suo padrone. In questo legame – silenzioso, devoto, toccante – si gioca il cuore del film. Il cane non è né vittima né mostro, come spesso accade nel genere, ma testimone silenzioso e custode di una possibile salvezza. Una figura quasi liturgica, che nella reiterazione dei suoi gesti di protezione si fa portatrice di una resistenza etica alla disgregazione della coscienza umana.
Leonberg dimostra un controllo formale notevole per un’opera prima: la regia è asciutta, attenta ai dettagli, capace di rendere significativi anche gli spazi minimi, mentre la sceneggiatura – firmata a quattro mani con Alex Cannon – si muove con coerenza senza mai indulgere in spiegazioni ridondanti o facili soluzioni. La scelta di non antropomorfizzare il punto di vista canino, di non ricorrere a voice-over esplicativi o escamotage didascalici, dona al film una purezza rara, e una fiducia nello spettatore fuori dal comune.
Certamente, Good Boy non è privo di elementi già noti al pubblico del genere: la casa isolata, i misteri familiari, l’eco di un passato oscuro, i presagi atmosferici e le classiche manifestazioni soprannaturali non mancano. Tuttavia, l’originalità non risiede tanto nella trama quanto nello sguardo. È proprio attraverso il filtro del cane che questi elementi assumono nuova linfa, scrollandosi di dosso la polvere del cliché e riconfigurandosi in una narrazione che spinge a interrogarci non solo su ciò che vediamo, ma su come siamo abituati a vedere.
Ciò che colpisce è anche la coerenza stilistica e la capacità di lavorare sull’economia del racconto: in poco più di 70 minuti, Good Boy riesce a evocare un mondo, a costruire un immaginario e a lasciare una traccia emotiva profonda. L’uso delle luci diegetiche, dei suoni ambientali, dei corridoi angusti e degli spazi fuori campo genera una tensione sottile e persistente, in cui è proprio l’assenza di spettacolarizzazione a produrre inquietudine. Alcune ripetizioni possono risultare ridondanti, e la linearità della progressione narrativa può sembrare povera di svolte decisive, ma questi limiti si trasformano in forza quando letti come parte integrante del progetto: un film che lavora sull’iterazione e sull’affezione, più che sulla sorpresa e sull’effetto.
Infine, l’approccio quasi spirituale alla figura dell’animale – non icona né simbolo, ma essere senziente che accompagna, protegge e sopravvive – dona al film una dimensione umana (o meglio, post-umana) che trascende il genere. Come già accaduto in Presence di Soderbergh, anche qui l’horror diventa un campo d’indagine sull’empatia e sulla percezione, un laboratorio sensoriale che ci ricorda che guardare davvero significa, spesso, mettersi nei panni – o nelle zampe – dell’altro.
In un panorama saturo di horror convenzionali, Good Boy è un’opera intima, elegante, sorprendente, che con piccoli mezzi riesce a rinnovare la grammatica del terrore attraverso una prospettiva inedita. Non è un film che spaventa a ogni svolta, ma uno che resta addosso, come un respiro animale nelle notti d’inquietudine.
Ilaria Berlingeri