All’Auditorium Parco della Musica, l’artista americana trasforma il concerto in un’esperienza multisensoriale di rara intensità, fondendo parola, musica e tecnologia in una riflessione poetica sul tempo e sull’ascolto
Laurie Anderson ha incantato il pubblico romano con un concerto straordinario all’Auditorium Parco della Musica, nell’ambito del Romaeuropa Festival. La serata di ieri ha confermato come l’artista americana resti una delle voci più originali e lucide dell’arte contemporanea, capace di intrecciare musica, parola e immagini in un’esperienza multisensoriale che va oltre le definizioni di concerto o performance.
L’ingresso discreto di Anderson, accompagnata dal gruppo newyorkese Sexmob, ha dato il tono a un evento costruito con misura e precisione: niente orpelli scenici, ma un uso sapiente della luce, dei video e dello spazio. La dimensione visiva, ridotta all’essenziale, dialogava con la parola e il suono in un equilibrio raro.
Il progetto presentato, “Let X = X”, ripensato e ampliato per questo tour, si è rivelato un viaggio sonoro e concettuale in cui la voce di Anderson, ora narrante, ora filtrata elettronicamente, si è intrecciata con le improvvisazioni dei Sexmob. La formazione — Steven Bernstein (fiati), con Briggan Krauss (sax, chitarra), Tony Scherr (basso), Kenny Wollesen (percussioni) e Doug Wieselman (chitarra e fiati) — ha mostrato una coesione perfetta, muovendosi tra jazz, elettronica e sperimentazione con fluidità e sensibilità.
Il risultato è stato un tessuto musicale in cui il rigore compositivo conviveva con la libertà espressiva e ogni suono sembrava scaturire da un pensiero, da un’immagine o da una memoria. A tal proposito, le proiezioni (di elementi astratti e intermittenti, ma altresì naturali come neve, condensa e pioggia) non illustravano ma suggerivano, come frammenti visivi di una mente in movimento.
Laurie Anderson ha confermato di possedere una capacità rara: quella di unire l’intimità della confessione al rigore dell’indagine artistica. La sua voce, con il suo tono basso e pacato, non impone ma invita, trasportando l’ascoltatore in un territorio dove la riflessione filosofica convive con l’ironia e la leggerezza.
Anderson ha evocato i suoi famigliari e i suoi “antenati spirituali” – John Cage, Gertrude Stein, Allen Ginsberg, William S. Burroughs – così come il compagno di una vita, Lou Reed. I temi centrali della sua poetica — la relazione tra uomo e tecnologia, la fragilità del linguaggio, il potere, la natura del tempo — sono emersi con una freschezza sorprendente, mai didascalica, sempre carica di umanità. L’artista ha impiegato perfino momenti performativi espliciti (una sessione di Tai Chi) come parti integrate dello spettacolo, trasformando il pubblico da spettatore a partecipante.
La Sala Santa Cecilia si è rivelata una cornice ideale per questa architettura sonora: la qualità acustica ha valorizzato ogni dettaglio, dalle risonanze dei fiati alle microvariazioni elettroniche, e il pubblico, numeroso e attentissimo, ha risposto con una partecipazione silenziosa, quasi contemplativa. Nel finale, un lungo applauso ha sancito la consapevolezza di aver assistito non tanto a un concerto, quanto a un’esperienza d’arte totale.
Con la tappa romana, unica data italiana del tour, Laurie Anderson conferma il suo statuto di artista imprescindibile del nostro tempo. La sua presenza sul palco non è solo quella di una musicista, ma di una narratrice visionaria che continua a interrogare, con la grazia e l’intelligenza che la contraddistinguono, le contraddizioni del presente. Una serata che resterà nella memoria del festival e di chi ha avuto la fortuna di esserci.
Roberto Puntato