Un racconto di memoria, musica e identità che trasforma la scena in pura emozione. In occasione del Flautissimo Festival
In occasione del Flautissimo Festival, è andato in scena ieri sera al Teatro Palladium di Roma Il fuoco che ti porti dentro, tratto dal romanzo di Antonio Franchini, con Peppe Servillo come voce narrante e Cristiano Califano alla chitarra. Uno spettacolo intenso, raffinato e di rara coerenza artistica, capace di restituire al teatro quella funzione originaria di rito collettivo in cui parola e suono si fondono in un’unica esperienza emotiva.
Un Servillo di magnetismo assoluto
Peppe Servillo, da sempre interprete di sensibilità e misura, firma qui una delle sue prove più complete. Il suo modo di abitare il testo non è mai declamatorio, ma profondamente interiore: ogni parola è scavata, ogni pausa è necessaria. L’attore si muove sul palcoscenico con una presenza che magnetizza, in bilico tra l’ironia e l’abbandono emotivo. C’è in lui la grazia del narratore antico e la precisione dell’attore moderno.
Nel ruolo del figlio che ricorda una madre difficile, ribelle e inafferrabile, Servillo non interpreta semplicemente un personaggio, ma diventa un tramite tra il pubblico e la memoria, tra la vita e il racconto. La sua voce – ora carezzevole, ora aspra – riesce a restituire la complessità di una donna e di un’epoca. Quando parla di Angela, lo fa con una tenerezza che non cancella il dolore, ma lo trasforma in canto.
Un viaggio dentro la complessità di Angela
Il fuoco che ti porti dentro narra la vita e la morte di Angela, una donna dal temperamento indomabile, difficile da comprendere e da amare. In lei si riflettono, in modo quasi simbolico, molti dei mali profondi dell’Italia: il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’opportunismo, il rancore, la mezza cultura spesso peggiore dell’ignoranza. Angela è la madre dell’autore, e il romanzo, così come lo spettacolo, diventa, così, un viaggio dentro la sua esistenza, un’indagine sulle passioni e sugli odi che l’hanno attraversata, nel tentativo di rintracciare un senso, una possibile spiegazione. La forma è quella della commedia, ma la sostanza è tragica.
Quale esperienza, quale ferita segreta o quale frustrazione mai risolta può trasformare una vita in un campo di battaglia, rendendoci ostili, colmi di rabbia, incapaci di riconciliazione? Da dove nasce la furia di Angela: dalla guerra che l’ha segnata da bambina? dalla perdita prematura del padre o dal peso di una madre ostile e opprimente? dall’antico complesso d’inferiorità del Sud che si oppone al Nord “usurpatore”? Oppure, più semplicemente, da un fuoco interiore senza causa apparente, un incendio dell’anima che brucia come il cuore segreto di un vulcano?
Con equilibrio raro tra misura e intensità, quello messo in scena da Servillo è un memoir abitato da figure che orbitano attorno a una protagonista assoluta: una donna eccessiva, imprevedibile, capace di passare con naturalezza dal dramma all’ironia. Lo spettacolo, così come il libro, alterna il tono della commedia eduardiana alla potenza viscerale di una tragedia antica, mescolando l’urgenza dello sfogo emotivo alla consapevolezza teatrale della rappresentazione — come se ogni parola fosse, insieme, confessione e recita.
Il dialogo tra parola e musica
Accanto a Servillo, Cristiano Califano costruisce con la chitarra un paesaggio sonoro di grande suggestione. Non accompagna, ma dialoga, risponde, sottolinea. La sua musica ha il potere di evocare immagini e atmosfere, di trasformare la scena in uno spazio sospeso. I due artisti si ascoltano e si sostengono con una complicità evidente, dando vita a un intreccio di parola e suono che ricorda certi momenti del teatro-canzone più autentico, ma con una maturità e una profondità proprie.
Ogni brano musicale è una fiamma che arde sotto il testo, una vibrazione che dilata l’emozione e consente al pubblico di entrare più a fondo nella storia. Quando le note si placano, rimane nell’aria un silenzio denso, come se la musica avesse scavato un varco dentro ciascuno spettatore.
La forza di un racconto universale
Il fuoco che ti porti dentro è un racconto sulla memoria familiare, ma anche un’indagine sull’identità e sul legame indissolubile tra vita e radici. Attraverso la figura di Angela, Franchini costruisce un ritratto di donna caparbia, appassionata, spesso ruvida e rabbiosa, che diventa specchio delle contraddizioni di un intero Paese. Il figlio che la osserva e la racconta non si limita a giudicarla, ma si sforza di comprenderla, e nel farlo restituisce una riflessione sul senso stesso dell’appartenenza e della perdita.
Servillo traduce tutto questo con una recitazione sobria ma penetrante. La sua voce sa farsi fragile e imperiosa, ironica e struggente, capace di rendere ogni parola necessaria. Non c’è mai compiacimento: solo una verità scenica che si impone per autenticità.
Un teatro della parola che diventa poesia
La regia, asciutta e precisa, valorizza la centralità dell’attore e lascia che la parola diventi protagonista. Nessun orpello visivo distrae: pochi elementi scenici, un disegno luci essenziale, e la forza del racconto che prende forma dal corpo e dalla voce. È teatro nella sua essenza più pura, dove la semplicità diventa bellezza e il silenzio acquista valore di linguaggio.
In alcuni momenti, la sala sembra trattenere il respiro: quando Servillo abbassa lo sguardo e la voce si incrina, si avverte il peso dell’esperienza, il dolore della memoria, ma anche la tenerezza di chi ha imparato a perdonare. Il pubblico si ritrova dentro un flusso emotivo costante, un viaggio che non concede distrazioni e che riporta l’attenzione sulla potenza della parola detta.
Il pubblico e l’eredità di un grande attore
Alla fine, lunghi applausi e un’emozione condivisa. Il pubblico del Palladium ha salutato Servillo e Califano con un calore non solo di ammirazione, ma di gratitudine: per aver ricordato che il teatro può ancora essere un luogo di verità.
Servillo conferma così il suo ruolo di artista totale, capace di unire la tradizione del teatro di narrazione con la musicalità della lingua italiana e la profondità del pensiero. In Il fuoco che ti porti dentro trova un testo che sembra scritto per lui: la riflessione sull’identità, il peso delle radici, la tensione tra amore e distanza — temi che attraversano da sempre la sua ricerca artistica.
Un’esperienza che scava dentro
Il fuoco che ti porti dentro è molto più di uno spettacolo: è un’esperienza che scava dentro, che lascia tracce. È teatro che pensa, che fa sorridere e commuove, musica che racconta e che consola. Una lezione di stile e di intensità interpretativa, capace di trasformare una serata in un piccolo evento culturale.
Chi c’era al Palladium lo sa: quel “fuoco” evocato dal titolo non si spegne con gli applausi. Continua a bruciare, silenzioso, in chi ha ascoltato.
Roberto Puntato