Kelly Reichardt smonta il genere del colpo perfetto per raccontare la fragilità di un’intera nazione. Nelle sale distribuito da MUBI dal 30 ottobre
Nel suo nuovo film The Mastermind, presentato in concorso a Cannes, Kelly Reichardt torna a riflettere sull’identità americana partendo da una piccola storia ambientata nella provincia del Massachusetts degli anni ’70. Protagonista è JB Mooney, un ex falegname disoccupato che si reinventa ladro d’arte improvvisato. Il suo primo (e unico) colpo ha per obiettivo quattro quadri di Arthur Dove, ma il piano si rivela presto fallimentare. Quello che inizia come una grottesca e sgangherata commedia criminale si trasforma gradualmente in un racconto amaro e spietato sul declino morale degli Stati Uniti.
Lontano dalla mitologia dell’heist movie alla Ocean’s Eleven, JB Mooney (interpretato con sorprendente misura da Josh O’Connor) è tutt’altro che una mente brillante. I suoi tentativi di aggirare la sorveglianza del museo si basano più sull’inerzia altrui che su strategie sofisticate. La regista gioca con le convenzioni del genere, solo per capovolgerle: il furto non è mai realmente credibile, e il protagonista appare sempre più inadeguato, incastrato nella sua stessa mediocrità.
La prima parte del film, con la sua estetica precisa, le inquadrature statiche e l’attenzione all’architettura museale, richiama volutamente il precedente Showing Up, ma solo per spiazzarci. L’arte – come l’intero apparato culturale in cui si muove JB – diventa rapidamente un pretesto narrativo, un falso motore della storia, un MacGuffin che nasconde il vero cuore del film: il progressivo smascheramento di un uomo e, attraverso lui, di un’intera classe sociale.
Reichardt, che firma anche la sceneggiatura, disarticola il racconto in due metà distinte. Se l’inizio sembra quasi stanziale, nella seconda parte The Mastermind si apre a una struttura da road movie, seguendo JB in una fuga sempre più disperata e senza meta. Il film cambia pelle: quello che sembrava un piccolo furto assurdo diventa un viaggio verso l’auto-distruzione. JB non è più un ladro dilettante, ma un uomo alla deriva, egoista e incapace di affrontare le proprie responsabilità. Abbandona i figli, sfrutta chiunque gli capiti a tiro, e cerca rifugio in un individualismo autodistruttivo.
Il personaggio assume allora un valore allegorico: nel suo volto rassicurante e nei suoi modi gentili, JB incarna le illusioni del sogno americano. Il film suggerisce che quel tipo di fallimento – personale, morale, familiare – era già in atto negli anni ’70 e avrebbe preparato il terreno per derive ben più gravi. Reichardt traccia così una linea diretta tra l’egocentrismo piccolo-borghese dell’epoca e il declino civile e politico che porterà, decenni dopo, alla stagione del trumpismo.
A decifrare il protagonista sono soprattutto le figure femminili del film. La madre (che continua a sostenerlo economicamente) e la moglie Terry (una silenziosa e impenetrabile Alana Haim) rappresentano due livelli diversi di consapevolezza. Se la prima è intrappolata nel suo ruolo di madre incapace di tagliare il cordone, la seconda osserva JB con uno sguardo freddo e definitivo, giudicandolo senza bisogno di parlare. È proprio da queste donne, quasi sempre ai margini della narrazione, che arriva il giudizio più netto.
Reichardt torna anche qui a manipolare il tempo – come aveva fatto in Meek’s Cutoff – usando il montaggio, che cura personalmente, come strumento di narrazione e rottura. La colonna sonora firmata da Rob Mazurek, figura centrale del jazz contemporaneo, accompagna la parabola discendente di JB, accelerandola, rallentandola, strappandola dal naturalismo e sospingendola verso una dimensione quasi astratta.
C’è una leggerezza apparente, soprattutto all’inizio, che si dissolve lentamente. JB Mooney, da figura tragicomica, si trasforma in simbolo di un egoismo vorace, impermeabile al cambiamento, espressione di una società che ha perso la capacità di guardarsi allo specchio. Il film si chiude con un finale durissimo, politicamente chiaro, dove l’ironia cede il passo a una consapevolezza spietata, che richiama i toni amari della commedia all’italiana, da Monicelli a Risi.
The Mastermind è un film che sembra iniziare da una piccola storia personale, ma che finisce per interrogare un’intera nazione. È uno dei lavori più ambiziosi e stratificati di Reichardt, e forse anche uno dei più disturbanti. Il furto è solo un innesco: il vero colpo lo subiamo noi spettatori, quando capiamo che quella “mente criminale” non è altro che un cittadino qualunque, specchio fedele del suo tempo – e forse anche del nostro.
Ilaria Berlingeri