Il mostro è tornato, ma senza veleno. Macon Blair rianima il cult Troma in chiave moderna con Peter Dinklage e Kevin Bacon, ma l’operazione risulta più sterile che sovversiva. In anteprima alla Festa del Cinema di Roma, arriva in sala dal 30 ottobre con Eagle Pictures
Rifare The Toxic Avenger oggi era una sfida che richiedeva più coraggio che nostalgia. Macon Blair, alla seconda regia dopo l’interessante I Don’t Feel at Home in This World Anymore (2017), ha scelto di confrontarsi con uno dei cult più estremi e irriverenti del cinema indipendente americano, simbolo dell’universo Troma e del suo anarchico spirito DIY.
Il risultato, però, è un film che, pur ambizioso nella forma e sincero nell’intento, finisce per smarrire proprio ciò che aveva reso il suo predecessore del 1984 un’esperienza inimitabile: il caos creativo, la sporcizia, la cattiveria gioiosa di un cinema che rideva mentre distruggeva le proprie regole.
Il nuovo The Toxic Avenger racconta la storia di Winston Gooze (Peter Dinklage), custode tuttofare di una potente azienda farmaceutica, la BTH, che inquina la città di St. Troma’s mentre arricchisce i suoi vertici. Malato, disperato e umiliato dal suo capo (un istrionico Kevin Bacon), Winston tenta un gesto di ribellione che finisce in tragedia: un incidente lo trasforma nel mostro radioattivo Toxie, giustiziere deforme e invincibile.
Blair rilegge la parabola originaria in chiave più umana e drammatica, concentrandosi sulla vulnerabilità del protagonista e sullo sfondo tossico di un capitalismo terminale. È qui che risiede la parte migliore del film: Dinklage dona a Winston una fragilità profonda, una malinconia che sopravvive anche sotto le prostetiche del mutante.
Il regista dimostra una certa abilità nel costruire un mondo visivamente coerente, cupo ma colorato, sporco il giusto per evocare l’immaginario fumettistico e pop della Troma. Alcuni momenti di violenza coreografata, pur “ripuliti” rispetto all’originale, conservano un gusto per l’eccesso che diverte e sorprende.
Buono anche il lavoro di tono: The Toxic Avenger non si prende troppo sul serio, ma evita la parodia pura, cercando un equilibrio tra il supereroe outsider e la tragedia personale di un uomo che lotta contro il proprio destino.
Tutto il resto, purtroppo, funziona solo a metà. Blair cerca di rendere “presentabile” un film nato per essere impresentabile, e in questo processo perde il veleno. Laddove l’originale di Lloyd Kaufman era un urlo di ribellione sporco, sgraziato e infetto, questo remake risulta patinato, controllato, quasi sterile.
Il gore diventa decorativo, la satira si fa innocua, e la critica sociale si riduce a uno schema prevedibile – il cattivo miliardario, il lavoratore sfruttato, la città corrotta. Nulla infetta davvero, nulla scandalizza: il sangue scorre, ma non contamina.
In sostanza, Blair si ferma al sintomo senza toccare la malattia. Se l’originale denunciava un sistema sociale marcio e violento mettendo in scena la sua stessa putrefazione, questa nuova versione si limita a diagnosticare i mali del presente, senza sporcarvisi le mani. Il risultato è un film “tossico” solo di nome.
Coinvolgere Kevin Bacon come villain e qualche cameo d’autore serve più a strizzare l’occhio ai nostalgici che a reinterpretare lo spirito Troma. È un’operazione-memoria che scambia il culto per la superficie, la ribellione per il citazionismo.
Laddove autrici come Coralie Fargeat, con The Substance, hanno saputo reinventare gli eccessi corporei e grotteschi del cinema di genere in chiave contemporanea, Blair preferisce muoversi in sicurezza, confezionando un prodotto ben fatto ma inoffensivo.
The Toxic Avenger (2025) non è un disastro, ma neppure il ritorno del “mostro” che molti speravano. È un film onesto, costruito con mestiere e rispetto, ma privo di quella sfrontatezza che definiva l’essenza Troma.
Più che un omaggio, sembra un addio: un funerale elegante per un certo modo di fare cinema che non esiste più. E forse, come suggeriva Kaufman, l’unico modo per onorare davvero il Vendicatore Tossico sarebbe stato lasciarlo riposare nel suo barile radioattivo.
Federica Rizzo