Il regista iraniano torna con un film di lucida ferocia morale, dove un banale investimento diventa il detonatore di un confronto sulla giustizia, la memoria e la coscienza individuale. Dal 6 novembre al cinema con Lucky Red
Un cane investito nella notte. Una famiglia – padre, madre incinta e bambina – costretta a fermarsi per un guasto all’auto. Un uomo che li osserva nell’ombra e riconosce nel conducente il volto del proprio carnefice. Da questa situazione minimale prende corpo Un semplice incidente, il nuovo, straordinario film di Jafar Panahi, che dopo aver scontato la pena impostagli dal regime iraniano torna a filmare con la lucidità e il coraggio che da sempre caratterizzano la sua opera.
L’episodio di partenza, un incidente qualsiasi, diventa il punto d’origine di un dramma morale e politico. Vahid, uno dei due proprietari dello spaccio dove la famiglia trova aiuto, è convinto che l’uomo al volante sia in realtà Eghbal, ex torturatore dei servizi segreti iraniani, responsabile delle violenze subite in carcere da lui e da molti altri. In preda all’ossessione e alla sete di giustizia, lo sequestra e si prepara a ucciderlo, ma il dubbio di un errore di persona inizia a farsi strada. Per fugare l’incertezza, Vahid si mette in viaggio con altri sopravvissuti alle brutalità del regime: la fotografa Shiva, la giovane Gobi e l’irrequieto Hamid.
Il film si trasforma così in un road movie esistenziale, un itinerario che attraversa la coscienza collettiva di un popolo ferito. Panahi filma i corpi e i volti con una vicinanza quasi documentaria, restituendo alla parola “verità” un senso concreto, tangibile. L’azione procede in bilico tra realtà e allucinazione, tra il sonno e la veglia, fino a farsi parabola sulla responsabilità personale dentro un sistema oppressivo.
Come già in Il cerchio, This Is Not a Film o Gli orsi non esistono, Panahi affronta il potere non in modo frontale, ma mettendo in discussione la complicità silenziosa di chi lo alimenta. Qui il nemico non è solo l’apparato teocratico di Teheran, ma l’essere umano disposto ad annullare la propria coscienza per sopravvivere. È un film sul limite della vendetta, sulla fragilità della morale di fronte al trauma, e su quanto sia difficile distinguere la giustizia dal desiderio di punire.
Il regista costruisce tutto con mezzi essenziali: una strada deserta, un furgone, pochi attori. Ma la forza del racconto nasce proprio da questa povertà produttiva. Girato in clandestinità, come gran parte della sua filmografia recente, Un semplice incidente si muove in uno spazio sospeso, dove ogni immagine è anche un atto politico. Panahi approfitta delle riprese in esterno per mostrare una donna senza velo, un gesto semplice ma dirompente nel contesto iraniano.
Il film, co-prodotto da Francia, Lussemburgo e Iran, deve il suo titolo alla traduzione letterale del farsi Yek tasadef sadeh, “un semplice incidente”: un’ironia amara, perché nulla qui è davvero semplice. Ogni gesto, ogni esitazione, ogni sguardo porta il peso di un passato di torture e umiliazioni.
Il viaggio dei protagonisti assume presto il tono di un dramma beckettiano, dove l’attesa e il dubbio divorano i personaggi. L’eco di Aspettando Godot è esplicita, ma Panahi la piega al proprio linguaggio, alternando momenti di tensione a un’ironia quasi surreale. Le pause, i silenzi, i campi lunghi diventano spazi di riflessione sul senso stesso della giustizia, mentre la macchina da presa registra il contrasto tra la brutalità del potere e l’umanità che, nonostante tutto, resiste.
Il confronto con La morte e la fanciulla di Polański è inevitabile, ma Panahi sceglie una via più corale: la vendetta privata diventa un atto collettivo, un tribunale improvvisato in cui le vittime si misurano non solo con il carnefice, ma con le proprie contraddizioni. Il risultato è un film politico e insieme profondamente umano, capace di ribaltare la prospettiva: non si tratta di punire, ma di capire se esiste ancora un margine per il perdono.
Il finale, come spesso accade nel cinema di Panahi, non chiude ma apre, costringendo lo spettatore a uscire dal film per interrogarsi sulla realtà. È un’uscita dal quadro, un salto nel fuori campo dove la vita e il cinema si confondono.
Con Un semplice incidente, Jafar Panahi firma una delle opere più intense e compiute della sua carriera: un atto di accusa e insieme una riflessione morale sulla sopravvivenza dell’etica dentro il terrore. Girato con la forza di chi non può ma deve parlare, il film è un manifesto di libertà artistica, una testimonianza dolorosa e necessaria. Un cinema che non consola, ma risveglia.
Alessandra Broglia