Dal 20 maggio al 1° giugno, lo spettacolo riporta in scena la memoria delle stragi di mafia e il rapporto profondo, intimo e rimosso che i siciliani hanno con Cosa Nostra
Dal 20 maggio al 1° giugno, il Teatro India di Roma ospita “Autoritratto”, il nuovo, potente lavoro teatrale di Davide Enia. In scena, l’attore e autore palermitano affronta uno dei nodi più intricati e dolorosi della storia contemporanea italiana: la mafia. Ma lo fa con uno sguardo che va oltre la cronaca e penetra nella psiche collettiva di una Sicilia segnata da decenni di violenza, paura, silenzio.
Un viaggio nella memoria collettiva
“Autoritratto” prende avvio da una data simbolo: il 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci, in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta. Da quel punto di frattura nella storia d’Italia, Enia riavvolge il filo degli eventi fino ad arrivare a uno degli episodi più feroci della storia di Cosa Nostra: il rapimento e l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, un bambino di appena 13 anni, figlio di un collaboratore di giustizia, tenuto in ostaggio per 778 giorni prima di essere ucciso e sciolto nell’acido.
Il linguaggio della scena come indagine dell’inconscio
Mescolando cunto, corpo, dialetto e narrazione, Enia trasforma la scena in un altare civile in cui la parola teatrale diventa strumento di indagine linguistica, politica e psicanalitica. «In Sicilia, praticamente tutti abbiamo avuto, almeno fino alle stragi, un rapporto di pura nevrosi con Cosa Nostra», afferma l’artista. È una nevrosi fatta di rimozione e assuefazione, di gesti quotidiani intrisi di una cultura del potere, della paura e del silenzio.
Il racconto non è mai esterno: è una confessione pubblica, un processo interiore. Enia porta sul palco il suo vissuto personale: «Il primo morto ammazzato l’ho visto a otto anni, tornando da scuola. Conoscevo Paolo Borsellino, giocavo a calcio con suo figlio. Padre Puglisi era il mio professore di religione». La mafia non è stata solo un fatto sociale, ma un elemento costitutivo del paesaggio emotivo e familiare di un’intera generazione.
La mafia come specchio distorto della società
Enia compone il suo “Autoritratto” come un’analisi intima e collettiva. Il male, nella sua forma più estrema, si è annidato nelle pieghe della quotidianità. In una terra dove «la miglior parola è quella non detta», la mafia è diventata un riflesso delle relazioni familiari, dei rapporti con l’autorità, della repressione del desiderio, del silenzio imposto.
«Per davvero affrontare Cosa Nostra», scrive Enia, «significa iniziare un processo di autoanalisi. Non voler capire la mafia in sé, ma la mafia in me». È questa la sfida dello spettacolo: rompere la cortina della rimozione, dare forma al dolore non elaborato, trasformare il trauma in parola.
Una tragedia, un’orazione civile, un atto necessario
“Autoritratto” non è solo teatro: è orazione civile, è rito laico, è un urlo che scava nella lingua e nella carne di chi ha vissuto l’orrore della mafia. È un atto necessario per rimettere in discussione i meccanismi di rimozione e mitizzazione che troppo spesso hanno circondato il fenomeno mafioso. In scena, Enia restituisce un’immagine lucida e spietata della sua terra, della sua gente, della sua memoria, nel tentativo di ricucire ferite che restano aperte.
Lo spettacolo sarà in scena al Teatro India dal 20 maggio al 1° giugno: un appuntamento con la verità, la memoria e la responsabilità. Un’occasione per guardarsi dentro attraverso le parole di chi ha scelto di non voltarsi più dall’altra parte.
Alberto Leali