In anteprima mondiale al Festival di Cannes 2025, arriva nelle sale italiane dal 22 maggio distribuito da Eagle Pictures
La fine è vicina. Ma Ethan Hunt è ancora una volta l’ultima linea di difesa tra l’umanità e il disastro. Tom Cruise torna nei panni dell’agente più instancabile del cinema per affrontare la minaccia più subdola e letale mai incontrata: un’Intelligenza Artificiale senziente, sfuggita al controllo, capace di insinuarsi in ogni sistema, manipolare verità e percezioni, e spingere il mondo sull’orlo dell’annientamento. La missione, stavolta, è davvero impossibile: recuperare il codice sorgente dell’IA nascosto in un sottomarino nucleare russo inabissato sotto la calotta polare.
Dopo aver riconquistato una preziosa chiave crociata, Hunt si lancia verso il Sevastopol, relitto sommerso e ormai simbolo di un mondo in frantumi. Intanto, l’Entità avanza, prende il controllo delle armi di distruzione di massa, plasma governi e coscienze. L’atmosfera è da fine dei tempi: non solo per la posta in gioco narrativa, ma anche per il tono del film, che abbandona progressivamente le leggerezze spy per immergersi in un racconto cupo, riflessivo, perfino elegiaco.
Nei primi 50 minuti, l’opera respira un’aria plumbea e solenne, mentre ripercorre frammenti del passato della saga, evocando ricordi, volti e momenti che riaffiorano dal tempo. Non si tratta solo del gran finale di un episodio, ma di una vera resa dei conti per l’intero franchise: The Final Reckoning mette in gioco tutto ciò che Mission: Impossible ha costruito in quasi trent’anni, riposizionando il suo eroe come testimone di un cinema che non vuole arrendersi all’algoritmo.
Poi la tensione si trasforma in propulsione pura. Il film decolla, letteralmente, seguendo Hunt tra abissi e cieli, in sequenze che superano ogni limite fisico e cinematografico. Dalla discesa nel relitto artico – un’eccezionale parentesi quasi muta, erede spirituale del celebre caveau della CIA – fino a un inseguimento aereo in biplano che cancella i riferimenti spaziali e mette al centro il solo corpo di Cruise, The Final Reckoning mostra l’attore come ultimo baluardo dell’azione tangibile in un’era digitale.
Cruise, ancora una volta, si espone fino al limite: scende nelle profondità marine con tremori e spasmi reali, vola ad alta quota con il volto deformato dal vento. È un corpo vulnerabile, affaticato, ma indomabile. Ogni caduta, corsa e salto sono gesti quasi rituali, che sembrano dirci che prima dei codici e dei droni, c’era l’uomo. E quell’uomo è ancora qui, che corre.
Il film rinuncia a gran parte dei giochi di doppio e triplo tradimento che avevano caratterizzato i capitoli precedenti, concentrandosi su un’idea di gruppo come resistenza. Il team di Hunt, nonostante le perdite e i rimpasti, agisce come organismo coeso e intelligente. Si affida meno ai muscoli, più al pensiero strategico. E soprattutto, all’urgenza. Il tempo è finito. Il mondo sta per spegnersi. E la domanda, alla fine, è una sola: basterà una chiave a fermare l’apocalisse?
Con il suo tono crepuscolare, The Final Reckoning riflette sulle derive dell’intelligenza artificiale e sul potere della manipolazione mediatica, portando lo spettatore a confrontarsi con l’ipotesi inquietante di una fine non solo per Hunt, ma per il mondo intero. Eppure, nonostante la gravità, non è un epilogo triste. È un canto epico, forse il penultimo, forse l’ultimo, di un cinema che insiste a vivere con il cuore in gola.
Christopher McQuarrie e Tom Cruise confezionano un capitolo ambizioso, emozionale, che guarda indietro ma corre in avanti. Tra nostalgia e visioni, adrenalina e contemplazione, Mission: Impossible – The Final Reckoning non è solo uno spettacolo da vivere sul grande schermo. È una dichiarazione d’amore per il cinema d’azione fisico, artigianale, umano. Finché ci sarà qualcuno pronto a lanciarsi nel vuoto per salvare il mondo, ci sarà ancora spazio per sognare.
Maria Grande