Dal 27 maggio al 1° giugno un’indagine sul mistero dei legami umani attraverso dieci dialoghi intimi e spietati
Dal 27 maggio al 1° giugno, il palco del Teatro Argentina di Roma si trasforma in un campo di battaglia emotivo dove amore, odio, rimpianto e desiderio si confrontano senza pietà. Sarabanda, opera ultima di Ingmar Bergman, viene portata in scena da Roberto Andò con un cast d’eccezione – Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton e Caterina Tieghi – in una produzione congiunta del Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova e Teatro Biondo di Palermo.
Nata per la televisione nel 2003, Sarabanda fu concepita da Bergman come il suo film-testamento: un ritorno, trent’anni dopo, ai personaggi di Scene da un matrimonio, ormai invecchiati, induriti, forse disillusi. La struttura della pièce riflette il titolo: dieci scene come dieci movimenti di una danza a due, una sarabanda appunto, antica forma musicale e coreutica dal ritmo lento, solenne e sensuale. Ogni scena vede l’incontro di due dei quattro personaggi, in un alternarsi serrato di dialoghi che scandiscono il tempo come battiti interni di una partitura emozionale.
Il Johan di Renato Carpentieri e la Marianne di Alvia Reale si ritrovano faccia a faccia dopo anni, protagonisti di un confronto teso e disincantato. Accanto a loro, Elia Schilton dà corpo al tormentato Henrik, mentre Caterina Tieghi interpreta Karin, figura giovane ma già imprigionata nella rete di aspettative e delusioni familiari. Al centro di tutto: il nodo inestricabile dei rapporti tra genitori e figli, la confusione tra amore e controllo, tra affetto e possesso, tra distanza e bisogno di riconoscimento.
“Sarabanda – scrive Roberto Andò nelle note di regia – è una danza lenta e severa, in cui le coppie si formano e si disfano, segnate dalla vecchiaia, dal tempo e dal peso delle parole non dette”. Ma è nei silenzi, nei piccoli gesti, nei corpi che si avvicinano o si respingono, che si gioca la vera potenza emotiva di questo lavoro. Un abbraccio trattenuto, una carezza sfiorata, un dialogo che implode nel non detto: è in questi interstizi che si annida il cuore della messinscena.
La partitura visiva e narrativa che Andò orchestra, come una suite di Bach eseguita in punta di dita, restituisce la densità di un testo che non teme la brutalità della verità. “Il Bergman di Sarabanda – sottolinea il regista – ha smesso di illudersi: non crede più in nulla, e guarda al mondo con uno sguardo disperatamente disilluso”. Ma è proprio in questa disillusione che si apre un varco, una vulnerabilità che tocca e inquieta.
Un teatro della parola e dell’attesa, in cui la scena si fa specchio, e il pubblico è chiamato a confrontarsi con le proprie fratture emotive. Sarabanda è un’opera disturbante nella sua lucidità, ma anche profondamente umana. Un ultimo sguardo su ciò che resta, quando tutto il resto – le certezze, le maschere, le illusioni – è caduto.
Alberto Leali