La Morte non dimentica: la saga torna con un capitolo più consapevole, feroce e beffardo. Al cinema dal 15 maggio con Warner Bros. Pictures
Dopo quattordici anni di silenzio, Final Destination riemerge dal limbo con Bloodlines, sesto episodio di una saga horror che ha sempre fatto dell’ineluttabilità del destino la sua firma macabra. Ma non si tratta di un reboot né di un semplice revival nostalgico: Bloodlines è un vero sequel che, pur rispettando le regole storiche del franchise, ne rimescola le carte con intelligenza e ironia.
Diretto da Zach Lipovsky e Adam Stein, su sceneggiatura di Guy Busick e Lori Evans Taylor (con soggetto firmato anche da Jon Watts), il film si presenta fin da subito con un prologo ambientato negli anni Sessanta che riecheggia i momenti migliori della saga: un disastro collettivo — questa volta su una torre panoramica stile “Fungo dell’EUR” — che si rivela poi una visione premonitrice. Ma non di Stefanie, la giovane protagonista, bensì della nonna Iris, che sessant’anni prima aveva salvato centinaia di persone da una tragedia che la Morte aveva già pianificato.
È proprio questa scelta a innescare il cuore narrativo del film: la Morte, privata del suo trionfo, torna a esigere ciò che le spetta, allargando il cerchio delle vittime non solo ai superstiti originali, ma anche ai loro discendenti. Il concetto di “linea di sangue” diventa quindi il fulcro su cui si muove il racconto, trasformando la classica caccia a un gruppo di sventurati amici in un’eredità intergenerazionale di condanna.
La protagonista Stefanie (Kaytlin Santa Juana), tormentata da sogni sinistri e da una genealogia piena di non detti, rappresenta un’evoluzione interessante della classica final girl. La sua chiaroveggenza non è solo una risorsa narrativa, ma anche un lascito psicologico, una trasmissione femminile che scardina con consapevolezza le convenzioni di genere dell’horror tradizionale. In questo, Bloodlines si inserisce nel solco di un cinema che riflette su sé stesso e gioca con le sue regole, come già accaduto nei recenti Scream, Until Dawn o nella trilogia di Ti West con Mia Goth.
Naturalmente, l’elemento più atteso dai fan — le morti creative, paradossali e iperboliche — non manca. Anzi, Bloodlines alza la posta con scene di pura ingegneria splatter che alternano tensione e ironia grottesca, restituendo alla saga quella vena nera e liberatoria che l’ha resa cult. Tra ritorni espliciti a icone del passato (sì, i tronchi ci sono) e una colonna sonora spiazzante che contrappunta il massacro con brani pop-rock, l’effetto è quello di un perfetto gioco al massacro dal sapore vintage ma con uno sguardo moderno.
Certo, il film non è esente da difetti. La messa in scena è a tratti visivamente povera, con effetti speciali poco convincenti e scenografie discutibili. Alcuni personaggi risultano poco sviluppati, più carne da macello che figure memorabili, e alcuni snodi narrativi si adagiano su soluzioni pigre. Ma Final Destination non ha mai brillato per raffinatezza psicologica: il cuore della saga è l’architettura delle morti e il piacere perverso di prevederle, ritardarle, evitarle — sempre invano.
A rendere Bloodlines particolarmente significativo è però il suo senso del tempo. Non solo perché introduce un’estensione temporale inedita, con la Morte che rincorre il suo debito per oltre sei decenni, ma anche perché riflette in modo meta-narrativo sulla propria eredità cinematografica. Gli autori attuali, fan cresciuti con i primi film, sembrano perfettamente consapevoli di cosa funziona e cosa no, e dimostrano di saper maneggiare con rispetto e ironia il materiale originario.
Il cameo di Tony Todd nei panni del sinistro William Bludworth — la sua ultima apparizione prima della scomparsa, a cui il film è dedicato — è gestito con sobrietà ed efficacia, offrendo un tocco emotivo e un ponte narrativo tra vecchie e nuove generazioni di spettatori.
Final Destination: Bloodlines è quindi un riuscito esempio di horror d’intrattenimento che non tradisce le aspettative, ma anzi riesce a rilanciare il franchise con un capitolo che diverte, sorprende e, soprattutto, si prende il giusto tempo per meditare sulla fatalità. Forse non il miglior episodio della saga, ma sicuramente il più consapevole, e tra i più godibili.
Perché, alla fine, come dice Bludworth: “Nella vita non si sa mai. Meglio viverla al meglio finché si può.” E magari, mentre aspettiamo lungo il fiume, cercare anche di sorridere.
Maria Grande