L’apocalisse come pedagogia e specchio dell’Occidente esausto: al cinema dal 18 giugno distribuito da Eagle Pictures
Nel nuovo capitolo dell’universo narrativo inaugurato da 28 giorni dopo, Danny Boyle ritorna per completare — o forse decostruire — l’immaginario zombie contemporaneo con 28 anni dopo. Più che un sequel, è una riflessione a freddo, uno sguardo disincantato su cosa resta dopo la fine del mondo. E su chi siamo diventati, noi sopravvissuti.
Il film si apre con un flusso di immagini rapide e disturbanti: bambini, soldati, culti, pupazzi deformi, tra cui i Teletubbies — grotteschi, spettrali. Non solo simboli dell’infanzia perduta, ma frammenti disordinati di un inconscio collettivo ormai scomposto. È il ricordo di una civiltà che si rigira ossessivamente tra i rottami della propria memoria culturale. Il montaggio convulso — come una crisi febbrile — restituisce un’umanità che ha smesso di elaborare il trauma, scegliendo invece di ritualizzarlo.
Siamo a Holy Island, luogo-simbolo e microcosmo di una nazione chiusa in se stessa. Non c’è più un mondo esterno: esistono solo confini rigidi, ideologici prima che fisici. Qui l’infanzia viene educata alla caccia, in un addestramento alla violenza travestito da sopravvivenza. Ogni gesto, ogni lezione trasmessa è un passaggio verso la militarizzazione dell’identità. Come un’eco lontana dell’impero britannico, la poesia di Kipling accompagna la marcia meccanica e rituale di questi bambini soldato: “marciare, uccidere, sopravvivere”.
Boyle alterna due grammatiche visive opposte ma complementari. Da un lato, il caos visivo: un montaggio ipercinetico, quasi subliminale. Dall’altro, la grandiosità contemplativa del formato ultra panoramico: orizzonti aperti, natura lussureggiante, silenziosa, indifferente. Un Eden post-civiltà, dove la bellezza convive con la corruzione dei corpi. Le nuove creature infette — slow-lows e alpha — incarnano un’idea di evoluzione più che di degenerazione. Lo zombie non è più una figura della fine, ma una speciazione alternativa. L’umanità si frattura, e ciò che nasce è mostruosamente nuovo.
Al centro, però, resta il racconto di formazione. Jamie (Aaron Taylor-Johnson), padre austero e consumato dal dolore, tenta di trasmettere al figlio Spike le regole per sopravvivere in un mondo collassato. Ma è un’educazione difettosa, fondata su un’ideologia del controllo e dell’aggressione. Sarà la fuga del figlio verso la terraferma a innescare un secondo viaggio, guidato questa volta dalla madre Isla (Jodie Comer), in un percorso che non parla più di forza, ma di cura. Qui Boyle riscrive l’archetipo eroico: non è più l’atto di uccidere a definire il coraggio, ma quello di restare. Proteggere. Amare, anche nel disfacimento.
Il gesto simbolico più potente del film è la nascita di una bambina da una madre infetta. Una vita nuova, miracolosamente immune. Non salvezza, ma possibilità. La fragile speranza di un domani che non nega la morte, ma la attraversa. E, come in filigrana, l’immaginario cristiano emerge: croci, liturgie laiche, il Bone Temple di Ralph Fiennes (memorabile nella sua incarnazione di scienziato-filosofo apocalittico), che custodisce le ossa degli infetti come reliquie. Nessuna redenzione, ma una commemorazione del dolore condiviso.
La politica non è mai esplicitata, ma è ovunque. Brexit è il non detto che avvelena ogni inquadratura. L’isola, l’auto-isolamento, il culto della purezza identitaria: un’Inghilterra che ha scelto la solitudine come rifugio, ma anche come condanna. Boyle osserva questa regressione con lo sguardo affilato di chi ama ma non perdona: la nazione che si autoespelle, che si aggrappa a un ricordo mitico per evitare di affrontare la realtà.
Tecnicamente, 28 anni dopo abbraccia una grammatica visiva audace, sfruttando smartphone e tecnologie immersive per cancellare ogni distanza tra spettatore e orrore. I corpi sono prossimi, vulnerabili, marci. La crudezza diventa tattile. Il film richiama l’estetica asciutta e spietata de La strada di McCarthy o della prima stagione di The Last of Us, ma si spinge oltre, affondando nel cannibalico più che nel post-apocalittico classico.
Boyle e Alex Garland non cedono alle formule convenzionali del genere. Il film è stratificato, disordinato, a tratti eccessivo. Ma è proprio questa complessità — a volte cacofonica, sempre vibrante — a renderlo necessario. Perché la vera paura oggi non è più l’epidemia, ma il mondo che abbiamo costruito dopo. L’orrore non è ciò che ci distrugge, ma ciò che abbiamo normalizzato per sopravvivere.
In definitiva, 28 anni dopo non offre consolazioni. Offre visioni. E ci chiede di restare lì, davanti a quello che siamo diventati, senza distogliere lo sguardo.
Ilaria Berlingeri