Con Anita Pomario, Donatella Finocchiaro, Lucia Sardo, regia di Paolo Licata e musiche di Carmen Consoli. Al cinema dall’8 maggio, una produzione Dea Film e Moonlight, con il contributo della Sicilia Film Commission
Con L’amore che ho, il regista Paolo Licata firma il suo secondo lungometraggio e sceglie di raccontare la storia potente e dolorosa di Rosa Balistreri, figura emblematica della canzone popolare siciliana. Dopo il documentario Rosa. Il canto delle sirene, diretto da Isabella Ragonese, arriva ora un racconto di finzione che restituisce la complessità umana e artistica di una donna indomita, capace di trasformare la sofferenza in denuncia sociale.
Il film, tratto dal romanzo L’amuri ca v’haiu di Luca Torregrossa, nipote della cantante, si apre in una Palermo del 1990, dove Rosa, ormai anziana, canta davanti a pochi spettatori, lontana dai fasti e dalla notorietà che l’avevano resa celebre. È da questa immagine malinconica che prende il via una narrazione frammentata e profonda, che ci accompagna indietro nel tempo attraverso l’infanzia segnata dalla miseria, un matrimonio imposto, violenze domestiche, e un percorso artistico tanto appassionante quanto doloroso.
Licata costruisce il ritratto della protagonista affidando le sue diverse età a tre attrici (Anita Pomario, Donatella Finocchiaro, Lucia Sardo), che ne restituiscono con coerenza l’essenza, mantenendo viva la fierezza, la passione e la ribellione che hanno reso Rosa una figura fuori dagli schemi. Attraverso un montaggio che alterna continuamente passato e presente, il film mette in luce come la dimensione privata di Rosa – soprattutto il conflittuale rapporto con la figlia Angela – sia inseparabile dalla sua parabola pubblica.
La musica è il filo conduttore del racconto: non semplice accompagnamento, ma strumento di riscatto e opposizione. Le canzoni – con musiche curate da Carmen Consoli, che appare anche in un piccolo ruolo – raccontano la Sicilia degli ultimi, gli abusi, il patriarcato e la marginalità, dando voce a chi non ne ha mai avuta. Rosa Balistreri non cantava per intrattenere, ma per scuotere coscienze. E in questo, L’amore che ho riesce a cogliere il senso più autentico della sua arte.
Se da un lato il film ha il merito di restituire l’intensità emotiva della protagonista, dall’altro pecca talvolta di un eccesso di drammatizzazione. La regia, pur attenta e sensibile, indulge in una messa in scena che in alcuni momenti sfiora la retorica televisiva, accentuando il dolore in modo fin troppo marcato. La storia di Rosa, di per sé carica di tragica umanità, avrebbe beneficiato di una narrazione più asciutta e meno enfatica.
Nonostante ciò, il risultato è un’opera sincera e coinvolgente, che riporta alla luce una delle voci più originali e coraggiose del Novecento italiano. Licata ci consegna un racconto che, pur radicato in un contesto storico ben definito – quello dell’Italia tra gli anni Sessanta e Ottanta – parla anche al nostro presente. Le dinamiche di potere, la violenza domestica, l’esclusione sociale sono ferite ancora aperte, e il film le affronta senza compromessi.
L’amore che ho non è solo un omaggio a una grande artista, ma un atto politico e culturale: raccontare la vita di Rosa Balistreri significa ricordare quanto sia necessario continuare a dare spazio alle storie delle donne che, con coraggio e determinazione, hanno sfidato le convenzioni per affermare sé stesse. Il canto di Rosa non si è mai spento: risuona ancora oggi come un richiamo alla dignità, alla libertà e alla giustizia.
Carla Curatoli