Al cinema dal 3 luglio distribuito da I Wonder Pictures
Con The End, Joshua Oppenheimer, regista noto per il perturbante dittico documentaristico sul genocidio indonesiano (The Act of Killing, The Look of Silence), approda per la prima volta al cinema di finzione, scegliendo un genere sorprendente per un autore del suo calibro: il musical. Ma non un musical qualsiasi. Il suo è un’opera atipica, distante anni luce dalla spettacolarità di Broadway o Hollywood, che accosta la forma musicale a un contesto distopico e claustrofobico, in un connubio spiazzante quanto affascinante.
Siamo in un futuro non precisato, dopo un disastro ecologico che ha spazzato via la vita sulla superficie terrestre. In un raffinato rifugio sotterraneo, una famiglia di ex industriali sopravvive da decenni, protetta da un sistema chiuso, ordinato e privo di prospettive. La loro esistenza è regolata da rituali ossessivi, in un microcosmo dove il tempo si è fermato e ogni cambiamento è una minaccia. La loro priorità è preservare l’illusione della normalità per il Figlio, un giovane adulto che non ha mai conosciuto il mondo esterno.
Tutto cambia con l’arrivo inatteso di una ragazza sopravvissuta, unica testimone di un mondo che esiste ancora, seppur morente. La sua presenza incrina l’equilibrio della comunità, risvegliando domande sopite, sensi di colpa rimossi, e un conflitto generazionale latente. Per la prima volta, il Figlio si confronta con la realtà fuori dalla narrazione costruita dai genitori, iniziando un processo di risveglio emotivo e morale.
Oppenheimer, fedele alla sua poetica del confronto tra forma e contenuto, trasforma The End in un’opera contraddittoria e volutamente dissonante. Il musical, per sua natura esibito e artificiale, si innesta su un contesto narrativo tragico e opprimente, generando un cortocircuito estetico e tematico. Le canzoni non sono cantate nel senso tradizionale, ma recitate come confessioni sospese tra lirismo e disperazione, accompagnate da coreografie misurate e stranianti. L’effetto è quello di un’umanità che, al termine della propria storia, continua a recitare se stessa per non crollare.
Nel cast spiccano Tilda Swinton, nei panni della Madre maniaca del controllo, che cerca di mantenere un ordine immutabile come unico baluardo contro il caos esterno, e Michael Shannon, Padre ambivalente e tormentato da colpe mai espresse. George MacKay interpreta il Figlio con una vulnerabilità inquieta, mentre Moses Ingram dona alla Ragazza un’energia nuova, dissonante rispetto alla staticità del rifugio. Attorno a loro gravitano altri personaggi senza nome – il medico, il maggiordomo, l’amica di famiglia – figure simboliche di una società che ha scelto di sopravvivere a qualsiasi costo, anche a quello della coscienza.
La scelta di non nominare i protagonisti contribuisce alla loro universalità: non sono individui, ma archetipi di una classe dirigente globale che ha costruito muri – fisici e ideologici – per proteggere i propri privilegi, lasciando il resto dell’umanità al proprio destino. La Ragazza diventa così il simbolo delle migrazioni contemporanee, della vita che insiste nel cercare un varco anche quando tutti gli accessi sembrano chiusi.
L’estetica del film è curata fin nei minimi dettagli, con scenografie sontuose e costumi rigorosi firmati da Jette Lehmann e Frauke Firl, già collaboratrici di Lars von Trier. Il risultato visivo è un ibrido tra lo sfarzo decadente di Melancholia e l’eleganza simmetrica di Wes Anderson, immerso in tonalità fredde e atmosfere rarefatte.
Eppure, The End non cerca mai lo scoppio, il colpo di scena, l’apice emotivo. Tutto resta sul filo della tensione, in una narrazione volutamente sospesa, dove il dramma è sempre potenziale ma mai compiuto. Questa scelta stilistica – che può risultare frustrante per alcuni – è invece profondamente coerente con la visione del film: una civiltà giunta al capolinea, incapace non solo di immaginare il futuro, ma anche di affrontare il passato.
Come già nei suoi documentari, Oppenheimer costruisce un doppio livello di lettura: da una parte la rappresentazione realistica e simbolica di una società alla deriva, dall’altra la riflessione meta-cinematografica sul ruolo del racconto, dell’illusione e della finzione nella costruzione del nostro sguardo sul mondo. Il bunker è il teatro della fine, e i suoi abitanti gli attori di un dramma senza spettatori.
The End non è un film semplice, né convenzionale. Ma è un’opera profondamente pensata, che si interroga su chi siamo, cosa siamo disposti a sacrificare per salvarci, e se abbia davvero senso sopravvivere senza affrontare ciò che ci ha condotto alla catastrofe. Una riflessione inquieta e rigorosa sulla nostra epoca, che preferisce il lusso della negazione alla responsabilità del cambiamento.
Ilaria Berlingeri