Al cinema dal 30 luglio distribuito da Eagle Pictures
Con Bring Her Back – Torna da me, i fratelli Danny e Michael Philippou confermano il proprio talento in una prova che scompagina le regole del genere horror con una feroce libertà espressiva. Dopo il successo di Talk To Me, costruito attorno a un’idea precisa e a una grammatica ben codificata, i due registi australiani scelgono di sporcarsi le mani – letteralmente – con un film più viscerale, disturbante, imprevedibile. La svolta è netta, eppure non completamente slegata dalla loro opera d’esordio: permane il gusto per l’evocazione rituale, la fascinazione per il confine sottile tra il mondo dei vivi e quello dei morti, ma qui l’incursione nell’ignoto assume toni più carnali, concreti, quasi epidermici.
A sostenere la tensione è una struttura narrativa che non si affida tanto al racconto lineare quanto a una costruzione per immagini e suggestioni. Nulla è spiegato in modo diretto, molte informazioni restano in ombra, lasciando lo spettatore in uno stato di perenne smarrimento, quasi riflettendo la condizione sensoriale della piccola Piper, interpretata da una sorprendente Sora Wong. L’ipovisione della protagonista diventa così metafora perfetta per una visione sempre parziale, per uno sguardo che tenta, invano, di afferrare un ordine nel caos. Un’idea brillante che dà coerenza estetica e concettuale a tutto il film.
Al centro della vicenda ci sono Andy, diciassettenne silenzioso e protettivo (Billy Barratt), e la già citata Piper, sorellina cieca che percepisce il mondo come un insieme di luci e contorni. Dopo la tragica morte del padre, unico genitore, i due vengono accolti da Laura (una sorprendente Sally Hawkins), donna gentile ma dall’aria vagamente disturbata, che manifesta da subito una forte preferenza per Piper. Nella sua casa, isolata e immersa nel silenzio, vivono anche due presenze opposte: Ollie (Jonah Wren Phillips), figlio adottivo dal comportamento inquietante e incline all’autolesionismo, e l’assenza lacerante di Cathy, figlia naturale di Laura, morta anni prima annegata nella piscina del giardino. Anche Cathy era non vedente, proprio come Piper. Quando i due fratelli iniziano la convivenza con questa famiglia disfunzionale, strani eventi prendono piede, e il velo tra ciò che è vivo e ciò che è perduto sembra assottigliarsi in modo irreversibile.
La tensione emotiva è affidata al legame tra i due fratelli, interpretati con intensità e sensibilità da Barratt e dalla Wong. Il loro rapporto è il cuore pulsante della storia: non solo motore drammaturgico, ma ancora di salvezza in un universo che si fa via via più insidioso, ostile, perverso. Attorno a loro si muove un microcosmo malsano, capitanato da Laura, la madre adottiva inquietantemente interpretata da Sally Hawkins. L’attrice britannica reinventa se stessa attingendo al suo repertorio di dolcezza e calore per piegarlo a fini disturbanti, regalando una performance che resta impressa per ambiguità e profondità.
Il film non concede respiro. La violenza è presente, mai gratuita ma sempre destabilizzante. La dimensione del body horror, con il suo carico di mutilazioni, lacerazioni e deterioramenti, viene esplorata con una crudezza quasi materica, dove ogni ferita racconta qualcosa di più profondo, spirituale. Il corpo diventa teatro del dolore, strumento e conseguenza del male. In questo senso, Ollie – il figlio adottivo di Laura – si staglia come figura simbolica, creatura contorta e dolente, enigmatica, inquietante fin dal primo sguardo. La scena del coltello masticato resta uno dei momenti più forti del film, emblema di una poetica che non cerca di abbellire l’orrore ma di farlo vivere nella carne viva.
La regia, dal canto suo, rifiuta gli orpelli, ma sa essere elegantemente disturbante. L’uso della sfocatura, dei riflessi, dei contrasti netti di luce e buio restituisce un mondo visivo coerente con il senso di disorientamento che permea tutta la vicenda. L’orrore è ovunque: nella casa, nei gesti, negli sguardi, nei silenzi. Non ci sono jump scare telefonati o soluzioni facili: tutto si consuma con una lentezza ipnotica, e proprio per questo più spaventosa.
Ma ciò che davvero rende Bring Her Back un film memorabile è la sua radicalità. I Philippou non cercano scorciatoie né indulgenze. Spingono sull’acceleratore dell’inquietudine, senza mai scivolare nel compiacimento. Rifiutano qualsiasi spiegazione definitiva, lasciando che la narrazione viva di tensioni non risolte, di domande sospese. È una scelta coraggiosa, e per certi versi spiazzante, ma anche quella che più resta, che più interroga.
A ben vedere, più che un semplice horror, Bring Her Back è un’esperienza sensoriale e psicologica, che scava nel lutto, nella perdita, nella maternità distorta, nell’amore fraterno come ultimo rifugio. Un film che non lascia indifferenti, che sconcerta, che sfida lo spettatore a rimanere dentro l’incubo fino alla fine. E alla fine, è difficile dimenticarlo. Senza dubbio, una delle prove più potenti e destabilizzanti del cinema dell’orrore contemporaneo.
Ilaria Berlingeri