Nelle sale italiane dal 4 settembre con Eagle Pictures
Material Love è il secondo lungometraggio della regista coreano-canadese Celine Song, un’opera che si inserisce nel solco della commedia romantica americana per smontarla dall’interno, utilizzandone i cliché come strumenti critici. Dopo il successo di Past Lives, Song continua a esplorare triangoli sentimentali, ma questa volta lo fa con toni più acidi e una cornice più esplicitamente politica, mettendo a fuoco l’amore come costruzione sociale, economica e culturale.
Ambientato nella New York contemporanea – uno scenario che Song continua a usare come laboratorio di identità e sentimenti – Material Love (il cui titolo originale, Materialists, è decisamente più esplicito) prende le mosse da una premessa tanto classica quanto densa di implicazioni: una donna divisa tra due uomini, due possibilità, due visioni del mondo. Lucy, la protagonista, è una “matchmaker” di professione, moderna sensale che riduce le relazioni a numeri, algoritmi e percentuali. In un’epoca in cui il dating è sempre più un mercato e sempre meno un mistero, il suo lavoro è quello di assegnare valore alle persone – in base al reddito, all’aspetto, alla reputazione – e combinare le coppie con fredda efficienza. L’amore, per Lucy, è una questione di convenienza. O almeno così dice.
Nel corso del film, però, Song mostra quanto fragile sia questa impalcatura. Lucy, vestita sempre alla perfezione, apprezzata da clienti e colleghi, è in realtà un personaggio attraversato da solitudine e rimpianto. Ha rinunciato alla recitazione – e forse anche all’amore – per rifugiarsi in un’esistenza lucida ma arida, dentro una professione che è il riflesso del suo disincanto. Ma quando, durante un matrimonio, rivede John (un ex attore squattrinato, ora cameriere) e incontra Harry (il miliardario da manuale, il cosiddetto “unicorno”), Lucy si ritrova divisa tra ciò che ha scelto e ciò che forse ha perso. Il triangolo amoroso diventa così pretesto per indagare le distorsioni affettive di una società dove i sentimenti sono subordinati allo status e la paura della solitudine viene sedata a colpi di compatibilità algoritmica.
Il pregio più evidente del film sta proprio nel modo in cui rilegge la rom-com classica: i riferimenti alla tradizione sono dichiarati, da Nora Ephron a Elaine May, passando per le screwball comedies degli anni ’30 e ’40, ma il risultato non è un omaggio nostalgico, bensì una decostruzione amara. Song prende la leggerezza del genere e la carica di inquietudine, smascherando il romanticismo come copertura di un sistema capitalistico che monetizza anche i desideri più intimi. Il tono del film alterna il brillante al cupo, il sentimentale al grottesco, senza sempre riuscire a trovare un equilibrio: alcune svolte narrative appaiono forzate, e certi sottotesti – come quello della morte, ricorrente ma mai veramente tematizzato – restano in sospeso, più evocati che elaborati.
La dimensione estetica è però curatissima: la fotografia di Shabier Kirchner tinge New York dei colori dell’autunno eterno, collocando i personaggi in un paesaggio malinconico, quasi rarefatto, mentre la colonna sonora – da Neil Diamond a Cat Stevens fino a Françoise Hardy – costruisce un’atmosfera sospesa tra vintage e disincanto. Anche la regia mostra un controllo notevole: Song guarda ai suoi personaggi con un distacco da entomologa, come se fossero cavie in un esperimento sociale, e costruisce inquadrature pronte a diventare icone da social, ma sempre dotate di una certa consapevolezza metalinguistica.
Il cast è ben assortito e gioca sullo star system con intelligenza: Pedro Pascal incarna l’uomo ideale (forse troppo), gentile e rassicurante ma ambiguamente opaco; Chris Evans, nei panni del sognatore fallito, è volutamente fuori posto, quasi uno spettro del passato; Dakota Johnson, nel ruolo più complesso, regge il film con una performance controllata, quasi anestetizzata, che riflette la confusione e l’insoddisfazione del suo personaggio.
Tuttavia, Material Love non è privo di contraddizioni. Alcuni stereotipi – la donna in cerca di stabilità economica, l’uomo povero ma autentico, l’élite cinica e distante – vengono riprodotti anziché criticati, e il film rischia di confermare ciò che vorrebbe sovvertire. Anche la critica al materialismo contemporaneo è a tratti troppo esplicita o semplificata: l’idea che l’amore sia diventato una trattativa mercantile è interessante ma non nuova, e qui viene trattata con una certa schematicità. Inoltre, la brusca introduzione di un evento drammatico nella seconda metà della narrazione risulta mal calibrata e indebolisce l’equilibrio del racconto.
Il vero tema, forse, è la distanza tra ciò che desideriamo e ciò che ci viene insegnato a volere, tra autenticità e rappresentazione. Song sembra dirci che ci muoviamo in un mondo di specchi deformanti, dove l’immagine prevale sull’esperienza e dove i sentimenti sono costantemente sottoposti al giudizio del mercato. Ma il film, pur sollevando domande stimolanti, non sempre riesce a sostenerle sul piano drammaturgico, restando in bilico tra riflessione teorica e racconto emotivo.
Material Love è un’opera ambiziosa, colta e stratificata, che conferma il talento di Celine Song come osservatrice lucida delle derive affettive del nostro tempo. Ma è anche un film imperfetto, che affascina più per le domande che pone che per le risposte che offre. Forse proprio per questo merita attenzione: perché dietro la sua superficie lucente e sofisticata, cova una profonda inquietudine contemporanea.
Maria Grande