Al cinema dal 5 giugno distribuito da Teodora
Aragoste a Manhattan, il nuovo film di Alonso Ruizpalacios, è una vivida immersione nel retrobottega della ristorazione newyorkese, dove il sogno americano mostra il suo volto più crudo. Ambientato nelle viscere del ristorante “The Grill”, tra vapori, grida e piatti scottanti, il film si allontana dai toni edulcorati di molte pellicole culinarie per raccontare una realtà fatta di fatica, alienazione e conflitti invisibili.
Lontano anni luce dalle atmosfere idilliache di film come Ratatouille o dalla satira grottesca di The Menu, Ruizpalacios costruisce un racconto corale in cui la cucina è un campo di battaglia quotidiano. Non tanto per il cibo in sé, quanto per ciò che accade intorno: rapporti di forza, gerarchie ferree, soprusi sistemici. La cucina, in questa visione, è un microcosmo dove si consumano esistenze, si logorano speranze e si assottigliano i confini tra dignità e sfruttamento.
Al centro del film si muovono personaggi vividi e intensi: Pedro, cuoco messicano irregolare (interpretato con una fisicità struggente da Raúl Briones), è il simbolo di un talento calpestato, soffocato dall’ingranaggio disumano della produttività. Con lui, Julia (Rooney Mara), cameriera americana apparentemente integrata, ma in realtà sospesa in una precarietà esistenziale e sociale. Il loro legame – consumato tra celle frigorifere e attimi rubati – è un tentativo disperato di trovare umanità in un mondo che ne è privo. Una gravidanza imprevista fa emergere la distanza insormontabile tra i due: razza, classe, lingua, tutto li divide.
A loro si aggiungono Estela, giovane appena arrivata dal Messico (Anna Díaz), sguardo ingenuo e ancora carico di speranza, e Rashid, il carismatico proprietario del ristorante (Oded Fehr), incarnazione subdola di un potere che promette salvezza ma consegna sfruttamento. La sua figura, ambigua e paternalistica, è lo specchio di un’America che accoglie a parole ma respinge nei fatti.
La regia di Ruizpalacios, insieme alla fotografia in bianco e nero di Juan Pablo Ramírez, imprime al film un’estetica aspra e potente, che ricorda il documentario per la sua crudezza, ma conserva una costruzione narrativa teatrale, ereditata dall’opera di Arnold Wesker da cui il film è liberamente tratto (The Kitchen). Il ritmo frenetico del montaggio di Yibrán Asuad accompagna la vertigine quotidiana della cucina, mentre i suoni – pentole sbattute, ordini urlati, gocce persistenti – amplificano la sensazione di claustrofobia.
Aragoste a Manhattan è un’opera profondamente politica. La cucina diventa il simbolo di una società spaccata, dove chi lavora e chi consuma vivono realtà parallele. Il film smonta con precisione chirurgica il mito meritocratico, mostrando quanto sia labile il confine tra integrazione e oppressione, tra sogno e incubo. Le vite raccontate sono fatte di resistenza e disillusione, di desideri soppressi e sopravvivenza quotidiana.
Il finale – un lungo e travolgente pianosequenza che culmina nell’implosione emotiva di Pedro – è un urlo viscerale contro un sistema che spezza le persone. Non è vendetta, ma resa. È la dichiarazione straziante di un uomo che, in un luogo dove non si può sognare, ha osato farlo.
Con Aragoste a Manhattan, Ruizpalacios ci offre un racconto necessario, che va ben oltre il genere gastronomico per toccare temi universali: il lavoro, l’identità, la disuguaglianza, l’appartenenza. Un film che brucia, che sporca, che lascia il pubblico con il cuore gonfio e lo sguardo più lucido. Una pellicola che non consola, ma risveglia.
Ilaria Berlingeri