In concorso a Cannes 2025, arriva al cinema dal 22 maggio con 01 Distribution
Non è un biopic e non vuole esserlo. Fuori, l’ultimo film di Mario Martone, si muove lontano dalle coordinate tradizionali del racconto biografico: non cerca di riassumere la vita di Goliarda Sapienza, ma di evocare una delle sue molteplici essenze, scegliendo un momento chiave, controverso e trasformativo. Nell’estate del 1980, la scrittrice finisce in carcere per aver venduto dei gioielli rubati; un fatto di cronaca apparentemente marginale che, nel film, diventa la soglia attraverso cui si spalanca un mondo altro, dove la prigione si trasforma in un luogo di liberazione e rinascita.
Tratto liberamente dai testi autobiografici L’università di Rebibbia e Le certezze del dubbio, Fuori racconta un arco breve ma densissimo: pochi mesi che condensano la fragilità e la forza di una donna irriducibile, ostinata, scomoda. Goliarda – interpretata da una Valeria Golino attraversata dal personaggio più che mai – affronta la reclusione non come punizione, ma come occasione per ricomporre il proprio disordine interiore, affrancarsi dalle maschere borghesi, e riscoprire il senso della propria voce. “Non fa male morire qualche volta, rigenera il senso dell’umorismo”, scriveva Sapienza: Martone trasforma questa frase in poetica filmica, in gesto radicale di sguardo e ascolto.
Il film si muove a onde, tra l’interno claustrofobico del carcere e l’esteriorità bruciante della Roma estiva, sospesa tra periferie slabbrate e salotti letterari asfittici. Il vero “fuori” non è quello oltre le sbarre, ma quello oltre le convenzioni. Lo spazio urbano diventa un corpo vivo, spigoloso, labirintico, restituito da Martone con un realismo psichedelico, rafforzato dalla fotografia livida e onirica di Paolo Carnera, che restituisce scorci e angoli inediti della città. La narrazione non segue il tempo lineare, ma fluttua, si frammenta, si perde e si ritrova, come gli scritti stessi di Sapienza, sempre provvisori, sempre in attesa di una riscrittura.
Cuore pulsante del racconto è il rapporto tra Goliarda e Roberta – interpretata da una Matilda De Angelis sorprendente per intensità e abbandono. Un legame che sfugge a qualsiasi etichetta: madre e figlia, sorelle, amanti, complici, forse tutte queste cose insieme, forse nessuna. Roberta è una creatura borderline, quasi pasoliniana, ribelle e fragile, che incarna la contraddizione feroce e vitale della marginalità. Insieme condividono una stagione sospesa, un’amicizia che è rifugio e sfida, un’alleanza che fa tremare le strutture del quotidiano.
Accanto a loro, una sorprendente Elodie dà corpo a Barbara, altra presenza femminile forte e dissonante, che insieme alle protagoniste trasforma uno spazio come una profumeria in un piccolo avamposto di libertà. Una scena simbolo, quella della doccia collettiva – giocata su un erotismo mai gratuito ma rituale, quasi sacrale – suggella una sorellanza senza retorica, fisica e spirituale al tempo stesso.
La colonna sonora – costruita attorno a cinque brani di Robert Wyatt, tra cui l’emblematico Little Red Riding Hood Hit the Road, e le musiche originali di Valerio Vigliar – è parte integrante della materia del film: non un commento, ma una risonanza interiore. In particolare, Memories, nella struggente versione post-incidente, evoca il senso di un passaggio irreversibile, di una vita che, spezzata, trova nuova forma. Così come accade alla Goliarda di Fuori, rigenerata non nonostante il carcere, ma attraverso di esso.
Martone, insieme alla co-sceneggiatrice Ippolita di Majo, firma un’opera libera e irregolare, forse imperfetta ma proprio per questo autentica. Non cerca di spiegare Sapienza, né di celebrarla: la lascia vibrare, tra i margini, nel fuori campo, nell’indefinibile. Non racconta un’eroina, ma una donna “difforme”, in lotta con un mondo che la esclude e la fraintende, e che solo dopo la morte ha cominciato ad ascoltarla davvero.
I titoli di coda lasciano un’ultima ferita aperta: un’apparizione televisiva della vera Goliarda, ospite di Enzo Biaggi, ignorata e dileggiata da un parterre di intellettuali compiaciuti, incapaci di cogliere la radicalità del suo pensiero. Una scena che sintetizza tutto il disprezzo e l’ostracismo di un’epoca (non del tutto passata) verso le voci scomode, disallineate, autentiche.
Fuori è un film che respira, ansima, inciampa e si rialza. Un film che vive dell’inquietudine della sua protagonista, dell’urgenza di restituire dignità e luce a una figura ancora poco assimilata. È un’opera che ci invita non solo a guardare, ma a entrare, a sporcarci con il reale e con l’immaginazione. A riscoprire, con Sapienza, l’arte della gioia.
Ilaria Berlingeri