In concorso al Festival di Cannes 2025, arriva nelle sale italiane dal 28 maggio con Universal Pictures
Con La trama fenicia, Wes Anderson ritorna in concorso al Festival di Cannes con un film che, pur muovendosi nel solco inconfondibile del suo stile, suggerisce una nuova maturità autoriale. Raccontando le ultime volontà di un magnate quasi immortale e la complessa eredità lasciata a una figlia novizia, il regista texano costruisce un’opera che bilancia estetica e riflessione, artificio e sentimento, mantenendo una forma familiare ma lasciando intravedere crepe in un’immaginazione finora impermeabile.
L’incipit è già dichiarazione d’intenti: Anatole “Zsa-zsa” Korda (Benicio Del Toro), industriale sopravvissuto a sei attentati, si aggira in un mondo di predazione economica e morte imminente, con l’intenzione di mettere ordine tra affari e affetti. Il focus si sposta sul rapporto tra padre e figlia, cuore emotivo di un racconto che, pur nella sua confezione brillante, introduce un tono più grave e contemplativo.
Visivamente, La trama fenicia è un trionfo andersoniano. Le inquadrature geometriche, la colorimetria calda ma priva di contrasti netti, i costumi disegnati da Milena Canonero e l’universo immaginifico sospeso tra il moderno e il rétro sono parte integrante di un linguaggio che non smette di affascinare. Come sempre, i dettagli sono iper-curati, i dialoghi ricercati, le location – tra deserti, magioni e navi cargo – sembrano uscite da un atlante surreale.
Eppure, qualcosa è cambiato. L’aldilà in bianco e nero che si affaccia nei sogni del protagonista, il confronto col giudizio divino (in cui spuntano Charlotte Gainsbourg e Bill Murray), la centralità del tema della morte – questa volta non come liberazione ma come conto da pagare – aggiungono un sottotesto spirituale che arricchisce la narrazione. L’inserimento di una dimensione religiosa, con la figura della figlia Liesl (Mia Threapleton) in procinto di prendere i voti, introduce uno sguardo inedito sull’identità e il destino, affrontato senza mai perdere quel tratto lieve e grottesco che è la cifra distintiva dell’autore.
Ma se da un lato Anderson sembra voler evolvere, dall’altro resta ancorato a meccanismi formali che iniziano a mostrare i segni del tempo. La sua estetica è diventata prevedibile, tanto da consentire agli spettatori abituali di anticipare scelte visive e snodi narrativi. La fedeltà ai propri stilemi – tipografia, simmetrie, vocabolario elevato, recitazione ieratica – da elemento distintivo si trasforma in limite quando non viene declinata in modo sorprendente.
Inoltre, benché il film presenti una narrazione più lineare rispetto a The French Dispatch o Asteroid City, con un vero arco narrativo che segue Korda nella sua redenzione tardiva, i personaggi restano perlopiù bidimensionali, più funzioni simboliche che esseri umani. Il rischio, più che l’autoreferenzialità, è quello dell’autocompiacimento: una ripetizione del già visto, protetta dall’affetto di un pubblico fedele, ma meno capace di coinvolgere chi cerca una reale trasformazione o scavo emotivo.
La trama fenicia non rivoluziona il cinema di Wes Anderson, ma lo aggiorna in modo sottile, lasciando affiorare inquietudini nuove in un impianto visivo ormai familiare. L’azione più serrata, il confronto col trascendente, il ritorno a un racconto unitario indicano un desiderio di evoluzione, seppur contenuto. Anderson rimane un autore fortemente riconoscibile, e questo è insieme la sua forza e il suo limite: ha creato un linguaggio così personale da diventare un marchio, ma il marchio rischia di diventare gabbia.
In definitiva, La trama fenicia è un film godibile, a tratti brillante, capace ancora di stupire per costruzione e invenzione visiva, ma non del tutto in grado di emozionare nel profondo. È un tassello coerente nella filmografia del regista, con lo sguardo rivolto verso il cielo ma i piedi ancora piantati sul set. E forse, proprio in questa tensione tra immobilità e trasformazione, sta il suo fascino.
Ilaria Berlingeri