Al cinema dall’8 maggio distribuito da Fandango
Con L’isola degli idealisti, Elisabetta Sgarbi porta sul grande schermo un’opera che si nutre delle suggestioni di un romanzo dimenticato di Giorgio Scerbanenco, ritrovato solo di recente e pubblicato nel 2018 da La Nave di Teseo. Sgarbi, da anni figura centrale del panorama culturale italiano – editrice, promotrice di eventi e cineasta instancabile – tenta qui un adattamento libero, traslando l’ambientazione originaria della Seconda Guerra Mondiale in un’epoca indefinita, immersa in una laguna spettrale e sospesa nel tempo.
La vicenda ruota attorno a Guido e Beatrice (Renato De Simone ed Elena Radonicich), due rapinatori in fuga che trovano rifugio in una villa isolata sull’Isola di Ginestra, dimora di una famiglia borghese decaduta. Sarà uno dei membri della famiglia, Celestino Reffi (Tommaso Ragno), medico disilluso e tormentato, a proporre loro una sorta di esperimento morale: rimanere lì per un periodo, sotto protezione, con la promessa di un possibile riscatto umano. Il confronto tra i due mondi – quello violento e disperato dei fuggitivi e quello apparentemente compassato ma ormai svuotato dei Reffi – offre lo spunto per un’indagine sui concetti di giustizia, redenzione e responsabilità.
Tuttavia, la forza potenziale di questa storia si disperde in una narrazione che fatica a trovare un equilibrio. La regia, sebbene attenta all’atmosfera, risulta presto ingessata, quasi intimidita dalla materia di partenza. L’estetica rimanda a un’Italia fuori dal tempo, tra echi degli anni ’60 e suggestioni da fotoromanzo noir, ma senza la spinta vitale o l’ironia che hanno reso recenti operazioni simili – come quelle dei Manetti su Diabolik – più riuscite. Qui prevale una serietà che si fa rapidamente rigida, priva di slancio o reale approfondimento.
Il ritmo rarefatto non aiuta: i dialoghi, dal taglio teatrale e spesso forzato, mancano di naturalezza, mentre i personaggi sembrano ombre che si muovono in uno scenario più evocato che vissuto. Anche la tensione morale che dovrebbe sostenere l’intelaiatura narrativa resta in superficie, come se il film esitasse a sporcarsi le mani con il conflitto interiore dei suoi protagonisti.
Dal punto di vista visivo, si apprezzano alcuni contributi di rilievo, come i titoli di testa firmati da Manuele Fior e la mappa della villa, elementi che tentano di aggiungere un tocco di immaginazione a un impianto altrimenti troppo rigido. Ma non basta. Lo spazio scenico si riduce spesso a una scatola chiusa, incapace di generare reale densità emotiva, mentre l’alternanza tra interno e esterno non riesce a sostenere i contrasti drammatici che l’opera sembra voler evocare.
L’isola degli idealisti è, in definitiva, un progetto nobile nelle intenzioni ma incerto nell’esecuzione. Sgarbi firma un’opera colta, talvolta fin troppo consapevole della propria ambizione, che però finisce per rifugiarsi nella forma, rinunciando alla complessità pulsante delle sue premesse. Quello che rimane è un affresco smorzato, che cerca la profondità attraverso la lentezza e la contemplazione, ma si perde in un’eleganza che diventa distanza.
Ilaria Berlingeri