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Locked, thriller claustrofobico diretto da David Yarovesky, nasce da un’idea tanto semplice quanto potenzialmente elettrica: un ladro d’auto rimane intrappolato dentro il SUV che stava cercando di rubare, trasformato in una prigione hi-tech dal suo proprietario, un uomo misterioso e vendicativo. Con due interpreti di peso come Bill Skarsgård e Anthony Hopkins, e il sostegno produttivo di Sam Raimi, il film sembra avere tutti gli ingredienti per una tesa partita a scacchi psicologica. Ma nonostante una confezione promettente e alcune trovate registiche ispirate, Locked finisce per rimanere bloccato, letteralmente e metaforicamente, nella sua premessa.
L’ispirazione viene dal film argentino 4×4, e come spesso accade nei remake, qualcosa si perde nel passaggio culturale. Yarovesky tenta di costruire tensione sfruttando l’ambientazione unica – un SUV blindato e tecnologicamente avanzato – ma la narrazione si arena in un ritmo ripetitivo e privo di veri picchi emotivi. L’intero film ruota intorno allo scontro tra Eddie, ladro disperato e padre in difficoltà, e William, ricco e colto giustiziere fai-da-te che osserva e manipola il suo prigioniero attraverso un sistema di sorveglianza all’avanguardia. Il risultato è una sorta di Saw light, privo però dell’inventiva visiva e narrativa che aveva reso efficaci i migliori capitoli della saga horror.
Il limite più evidente è una sceneggiatura che non riesce mai a sfruttare appieno la carica drammatica della situazione: troppi monologhi scolastici, scambi di battute poco incisivi e una tensione che si consuma troppo presto. Non basta infilare citazioni da Marx e Dostoevskij per costruire un vero dibattito morale: William si atteggia a filosofo della giustizia, ma le sue invettive su bene, male e responsabilità sociale suonano vuote, tanto quanto i tentativi di Eddie di reagire, per lo più limitati a esplosioni di rabbia e insulti. Il confronto psicologico, che dovrebbe essere il cuore pulsante del film, non decolla mai davvero.
A salvare Locked dalla completa indifferenza sono le interpretazioni dei due protagonisti. Skarsgård, confinato fisicamente e narrativamente per quasi tutta la durata del film, riesce comunque a esprimere una gamma convincente di emozioni – dalla disperazione alla rabbia, dalla paura all’umiliazione – attraverso una recitazione essenziale e fisica. Hopkins, invece, si diverte a declamare con la sua inconfondibile voce le teorie morali del suo personaggio, anche se il copione non gli dà molto materiale memorabile con cui lavorare. Quando finalmente compare in carne e ossa sullo schermo, la sua presenza non riesce a dare la scossa emotiva sperata.
Dal punto di vista visivo, Yarovesky cerca di superare i limiti imposti dalla location unica usando una regia variata: alterna le immagini delle telecamere di sorveglianza a riprese più convenzionali, e crea una certa atmosfera sfruttando luci, riflessi e ambienti angusti. Ma nonostante questi sforzi, il film finisce per dare l’impressione di girare a vuoto. Le sequenze si fanno ridondanti: Eddie tenta la fuga in mille modi, William lo punisce variando temperatura, luci e suoni, e il ciclo si ripete fino all’esaurimento. Quando il film tenta un rilancio emotivo introducendo la figura della figlia di Eddie, il risultato appare artificiale e manipolatorio.
Ci sono accenni a riflessioni interessanti – il controllo tecnologico, la giustizia privata, la lotta di classe mascherata da vendetta morale – ma vengono solo sfiorati, mai davvero approfonditi. Più che un’esplorazione della società contemporanea o del confine tra giustizia e vendetta, Locked resta un esercizio di stile che si prende troppo sul serio e che avrebbe potuto funzionare meglio con una maggiore dose di umorismo nero o un tocco più ironico. L’atmosfera cupa e la mancanza di empatia verso entrambi i personaggi principali rendono difficile per lo spettatore affezionarsi alla vicenda.
In definitiva, Locked è un film con un’idea forte e un cast promettente, ma la sua esecuzione soffre di una certa presunzione concettuale e di una scrittura troppo debole per reggere la tensione necessaria. È un thriller che parte con ambizione ma non trova mai davvero una direzione chiara, finendo per perdersi in un loop di provocazioni morali e soluzioni narrative scontate. Un’occasione sprecata, che neanche la regia elegante e la solidità degli attori riescono a salvare completamente.
Ilaria Berlingeri