Diretto dalla tunisina Kaouther Ben Hania, è stato scelto come candidato tunisino all’Oscar al miglior film straniero ai premi Oscar 2026
Oscillando tra documento e finzione, tra ricostruzione e invenzione poetica, The Voice of Hind Rajab, diretto dalla tunisina Kaouther Ben Hania, è un’opera che è insieme testimonianza, atto politico e riflessione universale sulla fragilità dell’infanzia di fronte alla guerra.
Il punto di partenza è una registrazione drammatica: la voce della piccola Hind, cinque anni, intrappolata in un’auto a Gaza dopo un attacco che ha sterminato la sua famiglia. Su questa base, la regista costruisce un dispositivo narrativo ibrido: da un lato la ricostruzione attoriale, dall’altro la forza cruda delle testimonianze autentiche. L’operazione non è nuova nel suo cinema, ma qui raggiunge una radicalità particolare, perché il confine tra realtà e messa in scena coincide con quello tra vita e morte.
Dal punto di vista estetico, Ben Hania lavora con uno stile sobrio e rigoroso: niente virtuosismi, niente estetizzazione del dolore. L’attenzione è tutta sulla voce, sulla parola pronunciata e sulle pause cariche di paura. È un cinema che chiede allo spettatore di ascoltare più che di guardare, di farsi testimone più che consumatore. In un’epoca in cui le immagini di guerra rischiano di scivolare nell’indifferenza per saturazione, la regista dimostra che il cinema può ancora incidere, può ancora restituire un volto, una voce, un’umanità a chi altrimenti rimarrebbe invisibile.
The Voice of Hind Rajab non è un film che ambisce alla perfezione formale, ma alla necessità: la necessità di restituire voce e volto a una bambina che rischiava di diventare solo un dato statistico. Può il cinema incidere ancora sulla coscienza collettiva, nell’epoca della saturazione mediatica e della distrazione permanente? La risposta, implicita ma potente, è sì. Quando sa scegliere il silenzio al posto del rumore, l’ascolto al posto dello sguardo compiaciuto.
Federica Rizzo