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The Legend of Ochi, esordio alla regia di Isaiah Saxon prodotto da A24, è un film che si distingue per la sua lavorazione artigianale e un’estetica retrò capace di riportare lo spettatore ai fasti del fantasy cinematografico d’altri tempi. Ambientato sull’immaginaria isola di Carpathia – che prende vita grazie ai paesaggi selvaggi della Romania – il film intreccia racconto di formazione, mito e denuncia sociale, pur senza trovare sempre un equilibrio narrativo pienamente convincente.
Protagonista è Yuri, adolescente solitaria e in rotta con la figura paterna, cresciuta in un villaggio che da generazioni vive nel terrore degli Ochi, creature simili a primati dal pelo blu, dotate di una forma di comunicazione musicale. Quando durante una battuta di caccia Yuri si imbatte in un cucciolo ferito, decide di proteggerlo e accompagnarlo alla ricerca della madre. Questo viaggio diventa l’occasione per mettere in discussione le paure inculcate dalla sua comunità e affrontare antiche ferite familiari, in una sorta di doppia ricerca: quella della creatura perduta e di sé stessa.
Pur poggiando su uno sviluppo narrativo lineare e poco originale, Saxon tenta di elevare il materiale con una cura quasi maniacale per il dettaglio visivo. L’approccio, che rifugge il digitale in favore di tecniche artigianali – pupazzi animatronici, pitture matte, costumi e scenografie costruite a mano – restituisce un mondo tangibile, materico, a tratti quasi pittorico. Gli Ochi sono piccoli miracoli di tecnica: espressivi, inquietanti e poetici allo stesso tempo, frutto di un lavoro minuzioso che richiama l’epoca d’oro degli effetti pratici.
Altro elemento che colpisce è la direzione della fotografia, firmata da Evan Prosofsky, che utilizza lenti vintage per dare alla pellicola un fascino antico e quasi onirico, tra ombre dense e luci morbide. La colonna sonora di David Longstreth gioca un ruolo centrale: maestosa, sinfonica, avvolgente, accompagna il racconto sottolineando i passaggi emotivi, laddove il film decide di affidarsi più alla suggestione sensoriale che alla parola.
Il cast, guidato dalla giovane Helena Zengel, dimostra notevole intensità, sebbene il copione non offra grande spessore ai personaggi secondari. Willem Dafoe regala l’ennesima interpretazione eccentrica e profonda, mentre Emily Watson porta in scena una figura enigmatica e autorevole, quasi spirituale. Meno riuscito il coinvolgimento di Finn Wolfhard, la cui presenza appare più una scelta di marketing che una reale necessità narrativa.
Dove il film fatica è nella sua struttura. Nonostante le tematiche interessanti – il conflitto intergenerazionale, il pregiudizio verso il diverso, la paura del selvaggio come proiezione dell’inconscio rimosso – l’intreccio resta spesso prevedibile, privo di reali colpi di scena o tensione. Si percepisce il desiderio di omaggiare opere come E.T. o i film di Miyazaki, ma senza riuscire a replicarne la magia o la profondità simbolica. La narrazione, nel tentativo di sembrare innovativa attraverso scelte di montaggio spiazzanti o personaggi volutamente eccentrici, finisce per diventare incerta e a tratti forzata.
The Legend of Ochi è insomma un’opera dalla bellezza evidente ma dall’anima irrisolta. Un film visivamente straordinario, che si fa ammirare per la sua passione cinefila e l’approccio analogico, ma che non riesce a toccare corde profonde sul piano emotivo. È una fiaba moderna che punta al cuore, ma spesso si perde in una messa in scena troppo studiata, dove l’ambizione visiva sovrasta l’urgenza narrativa.
Resta comunque un debutto promettente per Saxon, capace di farci sperare in un futuro in cui la fantasia possa tornare a emozionare anche senza effetti digitali. Un film che incanta lo sguardo, anche se non sempre riesce a coinvolgere il cuore.
Federica Rizzo