Presentato in anteprima al 78º Festival di Cannes, sarà al cinema dal 18 settembre con I Wonder Pictures
A quattro anni dalla Palma d’Oro con Titane, Julia Ducournau torna con Alpha, un’opera che si muove con passo più grave, meno esplosivo ma ancora più disperato, come un grido trattenuto troppo a lungo. La regista francese lascia da parte gli ibridi metallici e i corpi che esplodono per raccontare una trasformazione lenta, silenziosa, terminale: quella del corpo che si pietrifica. Un’umanità che non implode, ma si consuma dall’interno, diventando marmo, polvere, reliquia.
Al centro della storia c’è Alpha, una ragazza di tredici anni, interpretata con intensità sorprendente da Mélissa Boros. Dopo una festa, torna a casa con un tatuaggio artigianale sul braccio — una grande A — simbolo che richiama, senza mai essere didascalico, tanto i marchi infamanti del totalitarismo quanto quelli del sospetto sociale. Sua madre, medico e immigrata in Francia, teme che la figlia sia stata contagiata da un virus che in passato ha trasformato il fratello Amin (Tahar Rahim, in un ruolo fantasmatico e scheletrico) in una statua vivente. L’incubo ricomincia. E da qui si apre una doppia linea narrativa: quella dell’attesa clinica e quella, ancora più devastante, del giudizio della società.
Il virus non ha un nome, ma non ne ha bisogno: è un’allegoria densa e stratificata. In Alpha, il contagio si trasmette con il sangue, come l’AIDS negli anni Ottanta. Ma è anche un’infezione simbolica: del corpo adolescente, del corpo immigrato, del corpo malato. L’adolescenza è il terreno di collisione fra carne e identità, mutazione e paura, desiderio e rifiuto. Il corpo di Alpha, come quello del fratello Amin, è lo spazio di una lotta che non è mai solo biologica ma profondamente politica. Ducournau torna così a parlare di malattia, di stigma, di esclusione sociale e di trasmissione dei traumi familiari, come già aveva fatto in Grave (Raw) e Titane, ma con un tono più crepuscolare, quasi elegiaco.
La metamorfosi, però, non è più frontale. Qui non c’è il grottesco esplosivo di una mutazione visibile e clamorosa, ma una solidificazione lenta, quasi impercettibile. I corpi si fanno statua, come condannati a una forma eterna e sofferente. La pietrificazione si fa metafora della memoria che immobilizza, della cura che si trasforma in prigione, dell’amore che sfocia nel controllo. È forse questa la chiave tragica del film: i legami familiari come vene attraverso cui scorrono sia la vita che il veleno.
L’universo visivo di Alpha è fortemente simbolico, stratificato fino all’eccesso. La polvere rossa che avvolge la città non è solo un elemento atmosferico: è il Maghreb che ritorna, è una natura esiliata che si riprende lo spazio urbano. Non è sabbia, ma sangue, terra, memoria, un passato che rinasce nei vuoti lasciati dalla civiltà. L’immaginario è impastato con riferimenti biblici (la moglie di Lot trasformata in sale), letterari (Medusa, Ovidio), scultorei (Michelangelo, i Prigioni) e cinematografici (Carax, Tarkovskij, Vecchiali). Tutto si fonde nella materia filmica di Ducournau, densa, sporca, carnale eppure astratta, quasi mistica.
Se in Titane il corpo era un campo di battaglia, qui diventa un reliquiario. Non esplode, ma si incrina, si sbriciola sotto il peso della memoria e del dolore. Il personaggio di Golshifteh Farahani, madre senza nome, incarna questa dimensione: figura salvifica e al tempo stesso carceraria, accudisce i suoi cari ma è anche incapace di lasciarli andare. È lei, più di tutti, a farsi simbolo della pietrificazione emotiva. Non riesce a dimenticare, a perdonare, a guarire: il passato la blocca, la fa statua.
Il film alterna due linee temporali — Alpha bambina e Alpha adolescente — che si intersecano fino a confondersi. I ricordi diventano visioni, sogni, allucinazioni. È il tempo interiore della memoria, dove tutto convive: dolore, desiderio, perdita, incomprensione. In questo intreccio, la figura di Amin si fa sempre più ambigua. Fratello? Zio? Fantasma? Riflesso di un trauma mai elaborato? Il film non lo chiarisce, e volutamente lascia irrisolti molti snodi narrativi, scegliendo l’ellissi e l’ambiguità al posto della spiegazione.
Tuttavia, proprio qui si annidano i limiti più evidenti del film. Se da un lato l’apparato simbolico è ricchissimo e stimolante, dall’altro rischia di soffocare i personaggi. L’eccesso di significati, la colonna sonora invadente, l’estetica sovraccarica, talvolta minano l’emozione a favore della composizione. L’ermetismo diventa programmatico, più manierismo che mistero. Manca, forse, quel margine di respiro che permetta allo spettatore di vivere il dolore insieme ai personaggi, e non solo di ammirarlo da fuori.
Eppure, Alpha è un film che colpisce. Devastante, apocalittico, ma anche profondamente umano. Non cerca la consolazione. Non chiude con una carezza, ma con un gesto di rottura: lasciare andare. La salvezza, sembra dirci Ducournau, non è nella lotta, ma nella misericordia. Non nel controllo, ma nella rinuncia. Non nel trattenere, ma nel lasciar fluire.
Alpha è un’opera imperfetta, ambiziosa, esteticamente radicale, che vive nel confine sfumato tra sogno e lutto, tra memoria e mutazione. Non tutti i suoi elementi si tengono insieme con la stessa forza, ma nel complesso è un film che resta, come una cicatrice o un sogno febbrile che si continua a ricordare a occhi aperti. Un cinema che chiede molto, ma dà ancora di più.
Paola Canali