Vincitore del Premio Speciale della Giuria, arriva al cinema dal 18 settembre con 01 Distribution
Con Sotto le nuvole, presentato in concorso a Venezia 82 e insignito del Premio Speciale della Giuria, Gianfranco Rosi firma la sua opera forse più audace e stratificata. Il regista Leone d’Oro nel 2013 (Sacro GRA) e Orso d’Oro nel 2016 (Fuocoammare) torna con un film che è al tempo stesso un viaggio nel visibile e nell’invisibile, nel presente e nel passato, attraverso una Napoli che si rivela nella sua dimensione più profonda, lontana da cliché e stereotipi.
A guidare idealmente l’incipit del film è una celebre frase di Jean Cocteau, che offre la chiave di lettura per questa Napoli sospesa “sotto le nuvole”, costruita come una stratificazione poetica di memorie, rituali, rovine e quotidianità. Per farlo, Rosi torna al bianco e nero – utilizzato solo in Boatman nel 1993 – ma non per semplice scelta estetica. Qui la monocromia diventa strumento concettuale: scolpisce le immagini, scolora il superfluo e ci immerge in un tempo che si fa simultaneamente antico e contemporaneo.
Nel cuore del film non c’è una narrazione lineare, né un unico protagonista. Napoli si offre come un organismo vivo e palpitante, dove la Storia affiora dai sotterranei del Museo Archeologico Nazionale, dagli scavi di Pompei ed Ercolano, dai cunicoli ancora oggi violati da tombaroli. Ma anche da luoghi apparentemente marginali, come le sale cinematografiche abbandonate dove ancora fluttuano le ombre del passato filmico – Rossellini, Rodolfi, i cinegiornali d’epoca – o le telefonate quotidiane ai Vigili del Fuoco, frammenti di un’umanità che si racconta nella sua verità più autentica.
Il paesaggio sonoro creato da Daniel Blumberg, già premiato per The Brutalist, amplifica questa immersione sensoriale in un tempo che si piega e si confonde. Le voci, i rumori, le musiche rarefatte costruiscono una colonna uditiva che accompagna lo spettatore in un viaggio più evocativo che esplicativo, dove ogni suono diventa tassello di un mosaico emozionale.
Tra le tante figure che popolano il film – archeologi, fotografi, pompieri, marinai siriani, educatori – Rosi individua un filo conduttore: la devozione. Non religiosa, ma profonda, quasi sacrale. Una tensione verso qualcosa che resiste, che resta, che si tramanda. È il gesto paziente del maestro Concetto Leveque, che ogni giorno si dedica al doposcuola per i ragazzi del quartiere. È lo sguardo meticoloso dell’archeologa Maria Morisco, che scruta il passato con la torcia in mano per illuminarne i dettagli. È il lavoro silenzioso dei ricercatori giapponesi a Villa Augustea, impegnati da oltre vent’anni in uno scavo che sembra senza fine.
Questa Napoli – dei Campi Flegrei, del Vesuvio che incombe, delle scosse sismiche continue – non è la città del folclore turistico né della cronaca nera. Non ci sono camorra, pizzerie pittoresche o stadi gremiti. C’è invece un’umanità che resiste nel quotidiano, nella cura, nell’osservazione, nella memoria. Un’umanità che scava, che preserva, che tramanda.
Rosi costruisce tutto questo con il rigore e la libertà che contraddistinguono il suo cinema. Dopo film con strutture più definite – dal Grande Raccordo Anulare di Sacro GRA alle rotte migratorie di Fuocoammare – qui si affida alla città stessa come guida narrativa. Non c’è un tracciato da seguire, ma un insieme di incontri, intuizioni, deviazioni. Ogni inquadratura è una scoperta, ogni volto un frammento di tempo, ogni spazio un deposito di storie.
L’approccio è profondamente personale, ma mai autoreferenziale. Rosi osserva, registra, si fa trasparente. E in questo gesto quasi ascetico si manifesta la forza del film: lasciare che lo spettatore si perda e si ritrovi, senza imposizioni. L’andamento è fluviale, ma preciso; la struttura apparentemente libera, ma frutto di tre anni di lavoro minuzioso tra riprese e montaggio.
E poi c’è il Vesuvio. Presenza fissa, immobile e viva, come una divinità silenziosa che osserva. Fabbricatore di nuvole, custode e minaccia, simbolo di quella ciclicità naturale che crea, distrugge e trasforma. Rosi lo paragona a Shiva, e la metafora calza: perché tutto, in questo film, nasce e rinasce dalla tensione tra luce e buio, materia e memoria, cielo e terra.
La sequenza finale – sorprendente, fuori dagli schemi – sigilla il senso profondo di Sotto le nuvole: un film che non vuole spiegare ma evocare, che non pretende risposte ma suscita domande. Un’opera che riconferma Gianfranco Rosi come uno dei più lucidi e visionari autori del cinema contemporaneo. E che restituisce a Napoli la sua dimensione più vera: non cartolina, ma enigma. Non palcoscenico, ma archivio vivente. Non realtà da interpretare, ma mistero da contemplare.
Ilaria Berlingeri