Al cinema dal 4 settembre distribuito da Warner Bros. Pictures
Con Il Rito Finale, il regista Michael Chaves e il creatore James Wan ci accompagnano nel capitolo conclusivo – o almeno così sembra – della saga madre del Conjuring Universe, chiudendo un cerchio iniziato dodici anni fa con L’Evocazione. Non si tratta solo di un nuovo caso soprannaturale affrontato dai celebri coniugi Warren, ma di una riflessione più profonda su eredità, famiglia e memoria. Un horror che si fa intimo e crepuscolare, un commiato più emotivo che terrificante.
Dopo aver attraversato fasi e toni diversi – dal classico esorcismo al legal thriller, passando per derive gotiche e natalizie – Il Rito Finale riporta la saga alle sue radici più oscure, addentrandosi nuovamente in un horror d’atmosfera, disperato e cupo. L’elemento soprannaturale, qui, non è solo lo strumento per generare paura, ma il riflesso di un male antico, subdolo e silenzioso, che si insinua nella quotidianità e nei legami familiari.
La vicenda principale ruota attorno al celebre caso Smurl, ambientato nella Pennsylvania degli anni ’80, dove una famiglia operaia viene tormentata da presenze demoniache. A fare da eco a questa storia troviamo un secondo filone narrativo, ambientato nei primi anni ’60, che svela momenti inediti e cruciali della vita privata dei Warren, in particolare legati alla nascita della figlia Judy. È proprio lei, ormai adolescente e al centro dell’inquietante prologo, a incarnare la nuova frontiera della lotta contro il male: un passaggio di testimone implicito ma fortemente simbolico.
La domanda che aleggia per tutto il film – “È la famiglia a generare il male, o è il male a plasmare la famiglia?” – si fa via via più pressante. Le due famiglie al centro della storia (i Warren e gli Smurl) rappresentano due risposte possibili a questo enigma, in un gioco di specchi in cui l’oscurità non è mai totalmente esterna. Le dinamiche affettive, le fragilità e i legami si intrecciano così con la minaccia sovrannaturale, rendendo la lotta contro il male qualcosa di profondamente personale.
Vera Farmiga e Patrick Wilson, nei panni di Lorraine ed Ed, confermano per l’ultima volta la loro impeccabile alchimia. La loro interpretazione, ormai iconica, dona spessore emotivo a un film che più che spaventare, commuove. Il tono è volutamente più malinconico, i ritmi rallentano, lasciando spazio all’introspezione. Non mancano i momenti di tensione, ma l’effetto è quello di un’ultima danza con i fantasmi del passato, piuttosto che di uno scontro adrenalinico.
L’estetica del film, con l’uso ricorrente di immagini in VHS, vecchie televisioni e fotografie ingiallite, accentua la dimensione nostalgica e familiare del racconto. È un horror che guarda indietro, non solo per chiudere le trame lasciate in sospeso, ma per omaggiare un intero percorso cinematografico. La scelta di Chaves di rievocare atmosfere vintage rafforza la sensazione di assistere a un addio. E non è un caso se l’ultima scena ha più il sapore di un abbraccio che di un urlo.
Sebbene Il Rito Finale non raggiunga i picchi di tensione del primo capitolo – anche a causa di una certa prevedibilità nei meccanismi horror e un ritmo meno incalzante – trova una propria forza nella coerenza narrativa e nell’intensità emotiva. Il cuore del film non è il male, ma ciò che esso lascia dietro di sé: le crepe, le ferite, ma anche la volontà di proteggere, tramandare, resistere.
Infine, pur lasciando intendere una possibile prosecuzione – magari attraverso la figura di Judy e del suo compagno Tony Spera – Il Rito Finale si configura come un epilogo autentico, un saluto elegante e misurato a due personaggi che hanno ridefinito l’immaginario horror contemporaneo. Non un semplice film dell’orrore, ma un omaggio sentito a una saga che ha saputo unire il terrore al sentimento. E forse, proprio per questo, resterà nella memoria di chi l’ha seguita fin dall’inizio.
Ilaria Berlingeri