Al cinema dal 25 settembre distribuito da Warner Bros. Pictures
Con Una battaglia dopo l’altra, Paul Thomas Anderson torna dietro la macchina da presa a quattro anni di distanza da Licorice Pizza, e lo fa con una lucidità e una libertà creativa che lo confermano tra i pochissimi registi americani ancora capaci di parlare il linguaggio del presente senza piegarsi alle mode produttive o alle scorciatoie narrative. Il suo decimo lungometraggio è un’opera sorprendente, stratificata e affilata, che fonde impegno politico, ironia tagliente e una narrazione piena di energia visiva. Un film che osa, diverte e ferisce in egual misura, restituendo allo spettatore la sensazione rara di trovarsi di fronte a qualcosa di autentico, necessario, vitale.
La storia ruota attorno a Bob Ferguson (Leonardo DiCaprio), ex rivoluzionario rifugiatosi ai margini della società dopo il fallimento del gruppo militante a cui apparteneva, i French 75. Oggi Bob vive sotto falso nome in una zona isolata al confine col Messico, insieme alla figlia adolescente Willa (Chase Infiniti), cresciuta senza conoscere la madre, la carismatica leader del movimento: Perfidia (Teyana Taylor). La loro vita in apparente equilibrio viene spezzata dal ritorno del colonnello Lockjaw (Sean Penn), figura militare grottesca e minacciosa, legata in modo ambiguo e ossessivo al passato di Bob e Perfidia. Quando Willa scompare, Bob è costretto a rimettersi in marcia, riaprendo ferite, affrontando vecchi nemici, e riscoprendo l’idea stessa di lotta.
Anderson costruisce un’opera che, pur richiamando dichiaratamente il cinema d’autore del passato e pescando suggestioni da Vineland di Thomas Pynchon, non indulge nella nostalgia. Al contrario, Una battaglia dopo l’altra è un film profondamente ancorato al presente, tanto nelle tematiche quanto nel linguaggio. L’ambientazione post-crisi del 2008, il razzismo sistemico, la disillusione rivoluzionaria e la militarizzazione delle frontiere statunitensi non sono solo sfondo, ma elementi centrali che definiscono il tono e il senso dell’opera.
Sotto la superficie di un classico action movie, si muove in realtà un discorso più sottile e stratificato. Anderson abbassa la retorica, gioca con i codici del genere, ma senza mai smarrire il cuore pulsante del racconto. C’è ironia, sì, ma non compiacente. C’è azione, ma senza esibizionismo. C’è una malinconia sotterranea, quasi elegiaca, che accompagna ogni svolta narrativa, e che trova un’eco profonda nella performance straordinaria di DiCaprio. Il suo Bob è una figura sfibrata ma ancora capace di scatti di rabbia, un uomo che ha perso la fede ma non l’istinto alla protezione. DiCaprio restituisce questa complessità con una prova fisica e sarcastica, capace di toccare tanto la farsa quanto il dramma più autentico.
Accanto a lui, uno Sean Penn scatenato interpreta Lockjaw con una maschera di fanatismo e caricatura maschilista che inquieta e fa sorridere allo stesso tempo. È il villain perfetto per questo mondo: rigido, represso, ossessionato dalla purezza e, paradossalmente, sedotto proprio da ciò che ne mina l’ideologia. Il suo personaggio diventa emblema della tensione interna a un sistema che vorrebbe mantenere l’ordine soffocando la complessità umana.
Teyana Taylor dà volto e corpo a Perfidia, icona di un’utopia fallita, madre assente e leader carismatica, mentre Chase Infiniti – vera rivelazione del film – offre una Willa credibile e intensa, in bilico tra adolescenza e risveglio politico. Anche le brevi apparizioni di Benicio del Toro e Alana Haim lasciano un segno: il primo nei panni di un Sensei stoico e enigmatico, la seconda in un ruolo energico e fragile che aggiunge ulteriore umanità al gruppo dei French 75.
La regia di Anderson è, come sempre, misurata e ambiziosa. Ogni scelta estetica è funzionale al racconto: l’uso della pellicola, il montaggio calibrato, le sequenze d’azione mai frenetiche ma sempre leggibili, i momenti di stasi che danno respiro ai personaggi. Memorabile la scena dell’inseguimento tra le colline di Borrego Springs, dove la tensione si mescola alla malinconia, e la rivoluzione sembra scomparire tra le curve del paesaggio.
Pur senza rinunciare a una struttura lineare – una scelta inusuale per il regista – il film lavora in profondità, interrogando lo spettatore sul senso stesso della ribellione, sul rapporto tra generazioni, sulla memoria e sul fallimento. Una battaglia dopo l’altra non è una celebrazione dell’eroismo, ma un tentativo sincero di raccontare cosa resta della lotta quando il tempo passa, gli ideali si sbriciolano e le ferite non si rimarginano. È un film che guarda al passato per parlare con urgenza del presente, e che riconosce nel cinema – più che nella politica, nei social o nei media – l’ultimo spazio possibile per un gesto di resistenza.
Con questo lavoro, Anderson non solo riafferma il suo posto tra i grandi del cinema contemporaneo, ma lancia un messaggio chiaro: la rivoluzione non si guarda in TV, ma può ancora nascere, ogni volta, tra lo sguardo e lo schermo. Ed è proprio nel gesto ostinato di filmare la complessità – anche quando scomoda, anche quando fallimentare – che si trova la più autentica forma di libertà.
Ilaria Berlingeri